Il termine “omosessualità” nasce nella seconda metà dell’Ottocento, ma di certo gli uomini attratti fisicamente da altri uomini, per esistere, non hanno aspettato che si inventasse questa definizione moderna. Difatti esistevano anche prima, incontravano altre persone con le loro stesse inclinazioni, come avevano fatto gli “omosessuali” delle generazioni precedenti e come avrebbero fatto quelli delle generazioni successive. E anche se in molti paesi il codice penale prevedeva condanne severe, la maggior parte di loro non aveva a che fare con la legge: i processi erano rari e le polizie, più che controllare parchi, spiagge, piazze e cespugli di ogni città, dove ci si incontrava, in genere si occupavano d’altro. Sembra anzi accertato, come spiega lo studioso inglese Graham Robb, che già nei primi decenni dell’Ottocento esistesse qualcosa che oggi chiameremmo comunità omosessuale in ogni città abbastanza grande da consentire l’anonimato: c’erano posti, o addirittura quartieri, dove gli omosessuali maschi, più raramente le donne, potevano incontrarsi in relativa sicurezza: tra i più noti la spiaggia di San Francisco, Broadway e il Central Park a New York, Montmartre a Parigi, Unter den Linden a Berlino, il Retiro a Madrid, le banchine portuali a Barcellona, il Boulevard Ring a Mosca, la piazza di fronte al municipio a Copenhaghen, “circa diciassette posti diversi ad Amsterdam, e praticamente ovunque a Napoli”.
All’ombra del Vesuvio trova un po’ di sollievo anche Giacomo Leopardi quando vi arriva insieme all’“amico” Antonio Ranieri agli inizi degli anni Trenta dell’Ottocento. Napoli piace al grande poeta per “la dolcezza del clima, la bellezza della città e l’indole amabile e benevola degli abitanti”, ma Napoli, come aggiunge maliziosamente anche il nostro Arbasino, era anche il luogo che “suscitava in tutta Europa l’ammicco e il sorriso del ‘connaisseur’ quale sinonimo ed epitome di sessualità a buon mercato e bisessualità disponibile ad ogni angolo di strada”.
Della natura del sodalizio tra Ranieri e Leopardi che inizia nel 1830 e termina nel 1837 con la morte del poeta, conosciamo quello che ha scritto il reticente Ranieri, ma certe lettere del poeta all’amico non sembrano lasciare dubbi, anche se sappiamo che il linguaggio epistolare ottocentesco non era alieno, anche tra maschi, da effusioni che qualche decennio dopo sarebbero state considerate a dir poco sospette: “Povero Ranieri mio! Se gli uomini ti deridono per mia cagione, mi consola almeno che certamente deridono per tua cagione anche me, che sempre a tuo riguardo mi sono mostrato e mostrerò più che bambino. Il mondo ride sempre di quelle cose che, se non ridesse, sarebbe costretto di ammirare”. E ancora: “Non hai bisogno che io ti dica che dovunque e in qualunque modo tu vorrai, io sarò teco… La mia risoluzione è presa già da gran tempo: quella di non dividermi mai più da te”.
Il sospetto che tra i due ci fosse più che un’amicizia non è d’altronde solo nostro, ma doveva essere ben diffuso se lo stesso Ranieri racconta che, durante un breve soggiorno a Roma insieme a Leopardi, un parrucchiere, chiamato per “tosare i capelli”, che conosceva bene Leopardi e le sue abitudini perché originario di Recanati, gli chiede con “una certa ciera maliziosa”: “Com’è ch’ella ha con sé il figliolo del conte Monaldo?”. Alla domanda impertinente Ranieri risponde stizzito: “Non so cosa vogliate intendere. Vuol dire che siamo due amici che s’è preso un quartiere insieme”. Chiosa a questo punto Arbasino: “Proprio come ieri e l’altro ieri, tanti, nella medesima via: ‘questo marinaio è il figlio del nostro giardiniere’”.
Delle altre città italiane sappiamo poco, ma certo i posti per incontrarsi non mancavano e c’è da credere che essendo tutti gli stati della penisola italiana percorsi da fermenti risorgimentali e libertari, molti omosessuali fossero patrioti e carbonari e comunque innamorati dell’idea, allora rivoluzionaria, dell’Italia unita. Giacomo Leopardi muore nel 1837, ma, come scrive il grande critico Francesco De Sanctis, “se il destino gli avesse prolungata la vita fino al Quarantotto, senti che te l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore”.
L’Ottocento è stato comunque un secolo tra i più nefasti per gli omosessuali, da qualunque parte militassero. La maggior parte di loro non soffriva tanto a causa della repressione poliziesca e giudiziaria, tra l’altro molto blanda in Italia e diversa nei singoli stati in cui era suddivisa allora la penisola, ma dello strisciante senso di vergogna, della paura di perdere amici, famiglia e reputazione, dell’isolamento sociale e mentale, della tensione provocata dalla necessità di nascondersi. Si capisce perciò che i più abbiano cercato di non lasciar traccia dei propri affetti e delle proprie inclinazioni sessuali.
Possiamo tuttavia facilmente immaginare che tra i Mille di Garibaldi ci fossero alcuni omosessuali, come hanno fatto qualche anno fa Maurizio Micheli (Garibaldi amore mio, Baldini & Castoldi, 2002) e Giorgio Ansaldo (Sangue garibaldino, Fratelli Frilli, 2008); oppure che Camillo Benso conte di Cavour, sulle cui preferenze sentimentali e sessuali non abbiamo nessuna documentazione, se non qualche vaga notizia su relazioni femminili che hanno tutta l’aria di essere uno schermo, abbia coltivato con discrezione, fin da quando era entrato ancora ragazzo nell’Accademia militare del Regno, una sua passione per gli uomini. È quanto immagina F. Tripeleff in un racconto assai bello e divertente, oggi introvabile, che meriterebbe di essere ripubblicato (Un’avventura galante del conte di Cavour, Stampa Alternativa, 1992).
Qualcuno che però trova il coraggio di parlare di omosessualità nell’Ottocento c’è ed è uno dei più illustri padri della patria. Si tratta di Luigi Settembrini (1813-1876), a lungo rinchiuso nelle prigioni borboniche e in seguito rettore dell’università di Napoli e senatore del Regno d’Italia, ma anche autore di un prezioso libricino, I Neoplatonici, che ritorna in libreria in questi giorni, a cura di Vincenzo Palladino. Leggerlo e diffonderlo ci pare un bel modo per commemorare degnamente i centocinquant’anni dell’unità d’Italia (Luigi Settembrini, I Neoplatonici, Edizioni Senzaprezzo, Napoli 2010, pp.64, euro 8,00. Esiste anche un sito dedicato – www.ineoplatonici.com – dove è possibile comprarlo direttamente).
Settembrini, come tutte le persone con inclinazioni omosessuali vissute in periodi di forte repressione, nascondeva la parte “oscura” dei propri interessi erotici, ma ha avuto il coraggio di lasciarci questo libro confidando evidentemente nell’avvento di tempi migliori. Il romanzo, scritto molto probabilmente durante la prigionia di Santo Stefano, tra il 1849 e il 1859, o forse qualche anno dopo secondo l’ipotesi di Domenico Conoscenti (vedi la postfazione all’edizione francese del 2010, pubblicato da Eros Onix Editions), è rimasto però nascosto e sconosciuto per più di un secolo, fino al 1977, anno della sua prima edizione.
Il “caso Settembrini” è un esempio lampante dell’atmosfera repressiva (oggi diremmo omofobica) che ha aleggiato per lungo tempo, e in parte ancora aleggia, nella cultura italiana. E per questo vale la pena di raccontarlo, sia pure sommariamente. Nel 1937 il professor Raffaele Cantarella, direttore dell’officina dei Papiri Ercolanensi presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, nel cercare un manoscritto greco finito fuori posto, trova un fascicoletto di poche pagine, sulla cui copertina è scritto “I Neoplatonici per Aristeo di Megara – traduzione dal greco”. Risulta subito evidente che la traduzione è un falso: qualcuno ha scritto questo opuscolo contrabbandandolo per una traduzione. La ricerca del vero autore è semplice, perché accanto al manoscritto ce n’è un altro della stessa carta, ma molto più voluminoso: Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini. E poiché la grafia dei due manoscritti è senza dubbio identica, ne risulta che anche la “traduzione dal greco” è di Settembrini. Imbarazzato per lo “strano” contenuto del libro, il professor Cantarella lo ripone in un cassetto, ma si informa e viene a sapere che il manoscritto non è passato inosservato, che è conosciuto dai maggiori studiosi napoletani, da Benedetto Croce a Francesco Torraca, ma si è deciso di non renderlo pubblico per non infangare la figura di Settembrini, “martire patriottico dei Borboni” e tra i più esemplari padri della patria.
Il “club dei padri della patria”, come scrive Giorgio Manganelli in una bella nota all’edizione de I Neoplatonici del 1977, è molto esigente. E così su queste pagine leggere viene messa in pratica da uomini illuminati, ma patrioti, una forma di censura retroattiva. Se Settembrini aveva scritto un libro “sboccato”, bene, aveva fatto un “errore”. Non lo sapeva di essere un “martire”, un “eroe”? Se era il caso o meno di dare alle stampe il suo breve romanzo lo avrebbero deciso loro, e loro avevano deciso che non era il caso. Come si era permesso di scrivere di omosessualità? “Era in Italia, no? Mica a Parigi”.
Ma cosa c’è di tanto terribile nel breve libro di Settembrini da indurre intellettuali come Benedetto Croce a negarne l’esistenza? Il breve romanzo, ambientato in una città dell’antica Grecia, racconta l’iniziazione di due ragazzi, Callicle e Doro, la scoperta del piacere fisico e la decisione di goderne “a sorso a sorso tutte le dolcezze”, dolcezze che vengono rappresentate con esattezza che qualcuno potrebbe definire “pornografica”, ma con un tono sempre leggero. I due, come insegna loro “un filosofo platonico di gran fama”, non recano offesa a nessuno, né a se stessi, fanno quello “che fecero Armodio ed Aristogitone, che diedero la libertà ad Atene, ed erano innamorati”, come erano innamorati Achille e Patroclo e le coppie di eroi che hanno combattuto per la patria. “Insomma sappiate, o giovanetti”, insegna loro il filosofo, “che tutti gli Elleni migliori per senno, per coltura di mente e per gentilezza di costumi, sono innamorati nella loro giovinezza, come voi siete, e taluni anche nell’età matura e nella vecchiezza”. I due amanti apprendono ancora che “questo amore ha per legge la reciprocanza, e però è ottimo nei giovani della stessa età, buono in quelli di età poco diversa”, che “amare è cosa santa, godere dell’amore senza offesa altrui e senza vergogna propria, godere egualmente, è accrescimento e compimento d’amore”. “Non ascoltate”, insegna ancora il filosofo, “coloro che ragionano di cose di cui non hanno conoscenza, e qui la conoscenza non viene dalla mente ma dalla esperienza e dal fatto. Chi non ha provato non può parlare”.
Callicle e Doro esplorano dunque con piacere i loro corpi e ne traggono godimento, conoscono poi il piacere con la donna, combattono eroicamente in difesa della loro patria, si sposano e decidono di “seguire le leggi della loro patria e seguire amore: e ciascuno d’essi amò ed onorò la sua donna”. “Pure essi si amarono sempre tra loro, e sino alla vecchiezza di tanto in tanto per qualche occasione trovandosi nel medesimo letto confondevano i piedi e si abbracciavano come nei primi anni della loro giovinezza”.
Come si vede da questa breve sintesi si tratta della storia di due bravi ragazzi che sono caratterizzati da temperanza, da un forte senso del dovere e dall’amore per la patria, che però Settembrini deve proiettare in una Grecia di sogno, ma nei quali il curatore della presente edizione Vincenzo Palladino vede adombrate le figure dello stesso Settembrini e di un altro patriota, Silvio Spaventa, suo compagno di cella nel carcere di santo Stefano per otto anni.
Inviando il breve romanzo alla moglie Settembrini scrive: “…Mi dirai tu: ‘E come ti viene in capo di tradurre scritture dove è qualche oscenità?’ Ecco qui, Gigia mia: le opere greche sono piene di queste oscenità, quale più, quale meno: ma era il tempo, era la gente voluttuosa: e le più belle opere ne sono piene”. “Scrivendo io da me, mi guarderei bene da queste sozzure”, aggiunge ancora Settembrini. “Frase straziante”, scrive Manganelli, “giacché egli, dall’ergastolo, doveva mentire a sua moglie e doveva oltraggiare ciò che di sé aveva capito, e far scempio di sé per non essere scacciato, e lavorare di furbizia per ‘dire’ ciò che egli doveva ma non gli era concesso di ‘dire’”.
Il breve romanzo, liquidato sommariamente dai suoi censori come un “errore letterario”, è in realtà uno spiraglio su una tragedia ed è una favola antica e moderna al tempo stesso, perché per la prima volta nella letteratura italiana moderna l’amore tra due uomini è rappresentato come una relazione di una vita, basato, oltre che sull’attrazione fisica, sulla stima e sul rispetto reciproco. Non è un caso che sia stato proprio questo aspetto a scandalizzare il professor Cantarella, il primo curatore del libro nel 1977, il quale, di fronte all’ultima pagina del romanzo, concludeva sconsolato che “è difficile evitare l’impressione piuttosto disgustosa di questo senile ritrovarsi che non giustifica nemmeno l’innocenza fisica e psicologica della fanciullezza”.
Il libro in realtà è un’occasione per rileggere il nostro Ottocento e per riconsiderare il nostro Risorgimento, a partire proprio da Settembrini e dalla drammaticità della sua figura di padre della patria e chissà di quanti altri costretti al silenzio e alla negazione di se stessi. Dopo aver letto I Neoplatonici ci appaiono sotto una nuova luce le Ricordanze della mia vita con le descrizioni di suoi compagni di prigionia e acquistano tutto un altro senso la passione pedagogica di Settembrini, la sua esaltazione del libero insegnamento contro “quell’educazione fratesca che storpia l’anima e il corpo”, il suo orrore per le “lascivie che sono in un convento di frati” e la sua avversione viscerale per il cattolicesimo, per il cristianesimo, per i papi e per i preti. Egli aveva chiaro che il cristianesimo, o quanto meno la sua doppiezza pratica che nulla concedeva alla luce del sole e tutto rendeva lecito nell’ombra peccaminosa del segreto, era l’opposto della libertà sessuale (ahinoi esclusivamente maschile) adombrata nel suo breve romanzo. E proiettava nel sogno dell’antica Grecia l’utopia di una liberazione non solo della mente ma anche del corpo, che vedeva relegata dalla chiesa nella “regione sterminata del peccato”.
Settembrini sapeva, come scrive Giorgio Manganelli, “che questo ‘peccato’ era al centro della cultura in cui viveva, ne era il sangue guasto e torpido, e sapeva che quel ‘peccato’ non poteva dare libertà, ma solo alimentare nuovi ‘sbirri’; e la storia del suo manoscritto dimostra quanto egli avesse ragione, e spiega forse perché tanto gli stesse a cuore salvare quelle poche pagine, le sole in cui riuscì a parlare del suo ‘sogno’”.