Dopo più di trent’anni (la sua pubblicazione presso Garzanti risale al 1975) torna in libreria il romanzo cult dei femminielli napoletani, l’epopea divertente e tenera, iperbolica e teatrale, di uno dei personaggi più belli della letteratura gay italiana (Giuseppe Patroni Griffi, Scende giù per Toledo, Dalai editore, Milano 2012, pp. 139, 15,00 €).
Legato a un’idea premoderna ed estetizzante dell’omosessualità, lontano dal movimento di liberazione gay che ha sempre guardato con diffidenza e snobismo come molti intellettuali della sua generazione, Giuseppe Patroni Griffi (Napoli 1921 – Roma 2005) probabilmente non avrebbe accettato la definizione di “letteratura gay” per le sue opere, ma poco importa.
Personalità versatile come poche nella cultura italiana (regista teatrale, cinematografico e televisivo, sceneggiatore, drammaturgo, poeta), si è dedicato saltuariamente alla narrativa e forse è stato questo suo status di uomo di spettacolo prestato alla letteratura a permettergli una libertà che pochi della sua generazione hanno avuto e a fargli scrivere alcuni romanzi gay di sorprendente bellezza.
Rosalinda Sprint, il/la protagonista di Scende giù per Toledo, è un ragazzo napoletano che passa dalla condizione di “recchione” rincorso dal padre che con una pistola in mano vuole cancellare con la morte la vergogna della famiglia, a quella di travestita esagerata e barocca come la sua città, fantasiosa e innocente, volgare e grottesca, ma sempre di struggente verità.
Cacciata di casa passa da una camera all’altra finché prende una stanza a Montecalvario, al centro dei quartieri spagnoli, frequenta altre travestite, qualcuna amica ma perlopiù rivali (Marlene Dietrich, Camomilla Schultz, Maria Stuarda, Mariacallas, Rossicago, Viacolvento, ecc), apprende da loro i segreti del “mestiere” e comincia la sua carriera. I primi tempi non riesce a vincere la ripugnanza di compiere i gesti, gli atti dell’amore con uomini che non le piacciono, ”nel suo intimo c’è una sorta di delicatezza – nessuna volgarità – per cui sente il peso della prostituzione”.
“Tu pensa a un altro”, le ha detto Sayonara: “Pensa a chi ti ha fatto godere”, “ti credevi che nella vita è permesso solo ciò che piace? Non sarebbe vita, sarebbe paradiso”. E Rosalinda Sprint cerca di adeguarsi, ma continua a sognare l’Amore con la A maiuscola. Solo che sbaglia sempre e crede di trovare l’uomo della sua vita nel maschio che la disprezza, come fanno il cugino Gennaro o il cliente occasionale, “bruttochepiace”, che non le dice nemmeno come si chiama: “‘Chiamami Gaetano’. Non ha voluto dare il suo nome. Chiaro”. Il fatto è che a Rosalinda Sprint piace il maschio maschio, quello che ha il diritto di pretendere, che non deve chiedere mai, quello a cui ci si dà e basta. Così quando Gennaro, dopo aver fatto sesso con lei, disprezzandola la deruba, lei corre al balcone, ”lo vede uscire che si sta infilando ancora i soldi in tasca. Attraversa la strada e scompare come un ladro. Magnifico”. E di fronte a Gaetano che l’ha maltrattata e volgarmente ridicolizzata, “non prova nessun odio. Dovesse confessare, improvvisa attrazione, si farebbe fottere là in macchina sotto palazzo Reale. Che faccia virile”.
Con una vitalità e una innocenza disarmanti Rosalinda Sprint sopporta tutte le umiliazioni di un mondo che la tollera e la disprezza, la usa e la getta via, perché lei legge la realtà come se fosse un suo film e il lettore, stregato dai suoi monologhi esilaranti e surreali, dalla sua sublime stupidità, la segue affascinato per Toledo e la Litorania, per via Partenope e per i vicoli di Napoli fino alla grande isola d’Inghilterra, “terra promessa dell’amore” dove dovrebbe coronare il suo sogno di farsi “forestiera” e vivere col sergente Jack Cartwright (“illeggibile, impronunciabile, irricordabile” e che lei chiama napoletanamente Jack Cataratta). Jack però l’ha pregata di essere discreta, perché a Londra ha moglie e figli. Anche Marlene Dietrich le ha detto che “l’esagerazione è sempre da evitare”, ma lei non sa proprio contenersi e quando è pronta a scendere dalla nave, con il suo mantello color cannella su cui svetta l’immenso collo rigido alla Maria Stuarda, “e in cima a tutto, corona di regnante, una parrucca bionda da strabiliare”, i suoi sogni si infrangono miseramente sulle bianche scogliere di Dover investite da tremende raffiche di vento.
E mentre pensa attonita “tanto a Napoli non ci torno”, sa che il suo destino è la “mmerda” della sua città e della sua stanza di Montecalvario con i suoi fiori di stoffa che a lei piacciono tanto, le immagini del suo Jack fotografato nella mezz’ora che il sole invadeva la stanza, nudo sul letto o coperto dai suoi fiori di pezza, con un lenzuolo addosso ripiegato sul braccio “che fa più stola di visone che antico romano” o quella con un’aureola di cartone in testa, e in petto (attaccati con lo scotch) tutti i suoi lapis da trucco puntati come frecce e pure due lacrime di collirio all’angolo di ogni occhio a sottolineare lo strazio e il dolore del santo.
Con un mimetismo linguistico straordinario che altrove può scivolare nel manierismo, ma che qui è perfetto a delineare personaggi e situazioni, Patroni Griffi è riuscito a cogliere dietro l’esagerazione e la sguaiata teatralità, l’intima verità, la grazia e l’umanità della città di Napoli e del più straordinario travestito della letteratura italiana.