Dopo Queen Of Denmark (www.prideonline.it/?p=776) era logico aspettarsi qualcosa di innovativo da questo “vichingo” americano, anziché una fotocopia sbiadita di un disco ritenuto “seminale” per molti versi e acclamato dal famoso music magazine inglese Mojo come migliore album del 2010.
Le attese non sono certo state deluse, anche se John Grant (www.johngrantmusic.com) ha spiazzato un po’ tutte le aspettative con un album al primo ascolto diametralmente opposto al precedente: se Queen Of Denmark attingeva a piene mani dalla sua esperienza con il pop sognante degli Czars e il folk rock dei Midlake con cui il cantante era entrato in studio di registrazione, il nuovo Pale Green Ghosts si lascia (in parte) abbracciare dall’elettronica sperimentale di Birgir Thórarinsson (uno dei membri dei Gus Gus, famosa band islandese), alias Biggi Veira. Questa inconsueta collaborazione ha certamente reso complessivamente il sound più duro rispetto al precedente lavoro, anche se qua e là sprazzi di archi coadiuvati dai synth vintage anni ’70 fungono da anello di congiunzione con il recente passato.
In Pale Green Ghosts flashback del vissuto di Grant sono messi insieme a comporre una sorta di puzzle idealmente suddiviso nelle tracce che compongono il disco. Il titolo (fantasmi verde pallido) prende spunto dagli olivi che sovrastano l’autostrada I-25 nei pressi della casa dei suoi genitori a Parker, una piccola città del Colorado. Non è tanto la città in se stessa contro la quale John esprime astio in I Hate This Town, quanto il provincialismo, il falso buonismo dei suoi abitanti che condannano in cuor loro Grant per aver tradito valori che loro ritengono sacri e che metaforicamente si incarnano nelle regole di galateo messe in luce al ristorante, giù giù fino alla bistecca posta nel piatto dell’infedele.
L’ipocrisia è difatti uno tra gli atteggiamenti contro cui John si scaglia più volentieri, tanto che rompendo ogni indugio la scorsa estate, durante un collettivo disco/house tenuto con gli amici Hercules and Love Affair, ha candidamente dichiarato la propria sieropositività all’Hiv davanti a un pubblico attonito: “Siccome ci sono un bel po’ di persone nella mia stessa situazione che si sentono reietti della società, che si vergognano e si sentono non amati a causa di questo, ho ritenuto che non avrei dovuto aver paura a parlarne. Voglio che queste persone sappiano c’è qualcuno sul palco che condivide la loro condizione”.
Questa sua ammissione è palese nel brano Ernest Borgnine in cui John pensa sarcasticamente al proprio padre con cui non ha mai mantenuto un buon rapporto (“Papà mantiene lo sguardo mentre mi dice che ho la malattia. Cosa ti aspettavi? Hai speso la tua vita in ginocchio”), paragonando il suo giudizio a quello dell’attore Ernest Borgnine nei confronti del film Brokeback Mountain (nel 2005, come membro della giuria dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, Ernest Borgnine si rifiutò di guardare e votare Brokeback Mountain, dicendo: “se John Wayne fosse vivo, si rotolerebbe sulla sua tomba”). Grant esorcizza l’episodio identificando l’attore con il proprio padre: “Mi chiedo cosa avrebbe fatto Ernest Borgnine; vorrei che mi chiamasse e portasse il mio culo a scuola”.
Se nel precedente album John non perdeva occasione per inserire in ogni dove i riferimenti alla sua adolescenza e al suo boyfriend mai dimenticato Charlie (TC And Honeybear e Caramel su tutte ), in questo disco il ritratto degli uomini incontrati lungo il cammino di una vita assume un carattere sprezzante e irriverente: in Black Belt è altezzoso e ridicolo (“Non hai tempo da sprecare con quelli della entry level o della middle class; sai come ottenere quello che vuoi, vero?”), mentre in Vietnam la freddezza emotiva tipica di certi atteggiamenti è paragonata al noto defogliante Agent Orange. La rabbia accumulata durante questi rapporti dev’essere lasciata uscire, racconta Grant: “È più facile uccidere il tuo amante per qualcuno, se almeno provi odio per entrambi”. D’altra parte cosa attendersi da un uomo che si autodefinisce il più grande figlio di puttana (esemplare GMF) gettando merda su se stesso (“Non dovrei essere attratto dagli uomini”)?
Eppure, tra dramma e grottesco, le contraddizioni di questo autore risultano pienamente convincenti in questo album che raggiunge il suo apice proprio sul finale, con un brano in cui gli archi e il pianoforte di Chris Pemberton sembrano voler chiudere il puzzle in una tumultuosa armonia di note e poesia a dir poco emotiva. Glacier descrive come il dolore per l’omofobia subita sulla propria pelle, distorca le emozioni regalate da quanto di più bello possiamo provare nella nostra vita (“Questo dolore è un ghiacciaio che si muove attraverso te, ritaglia valli profonde e crea paesaggi spettacolari, affinché tu non resti paralizzato dalla paura quando le cose sembrano particolarmente ruvide”)… “È bello vedere i giovani gay oggi perché in generale sono molto meno paurosi. Glacier è la canzone che avrei voluto ascoltare quando ero adolescente”.
John Grant si esibirà questo mese in Italia per tre date consecutive: 11 aprile a Milano, Teatro Franco Parenti; 12 aprile a Roma, Parco della Musica; 13 aprile a Bologna, Teatro Antoniano.