Come succede sempre più spesso negli ultimi tempi, a dettare l’agenda è stato ancora una volta Giorgio Napolitano: in un breve passaggio del suo discorso di fine anno il presidente della repubblica si è chiesto scandalizzato se fosse “concepibile” per i bambini nati nel nostro paese da genitori stranieri restare stranieri “dopo essere cresciuti ed essersi formati qui”. Il fatto che abbia evitato di menzionare l’urgenza di una legge contro la violenza omofobica e – non sia mai – di una norma sul matrimonio egualitario la dice lunga su quali aspettative possiamo avere invece per una risoluzione a breve di quelle altre trascurabili questioni.
Ma tant’è: “Credo anch’io che al problema delle seconde generazioni verrà posto rimedio molto prima che a quello dei diritti di gay e lesbiche”, commenta Medhin Paolos, attivista lesbica di Rete G2 (che sta, appunto, per “seconde generazioni”) e animatrice del neonato sportello G.Lab, spazio aperto dallo scorso marzo a Milano dall’associazione che riunisce i giovani dai 18 ai 35 anni figli di immigrati nati o cresciuti nel nostro paese, in collaborazione con l’assessorato alle politiche sociali della giunta Pisapia. La legge italiana, in particolare la n. 91 del 1992, accorda la cittadinanza a quei ragazzi non prima del raggiungimento della maggiore età e attraverso complicati passaggi burocratici, con conseguenti disagi: non possono, tra le altre cose, votare alle elezioni, praticare sport a livello agonistico, vedersi riconosciuti i titoli di studio ai fini lavorativi, oppure trovare un impiego al pari di tutti gli altri; questo a causa dello status di “immigrati”, pur non essendolo. E il problema non può che aggravarsi: secondo lo stesso Napolitano, nel solo 2011 i minori nati nel nostro paese da genitori stranieri sono stati 420.000.
Il dibattito sul cosiddetto “ius soli”, almeno quello, prosegue spedito, e la nomina del medico di origini congolesi Cécile Kienge a capo del neonato ministero dell’integrazione sembra un passo ulteriore verso una legge più civile sulla cittadinanza.
Intanto, grazie alla stessa Medhin e agli altri componenti gay, lesbiche e trans di Rete G2, il tema dell’identità glbt è entrato a far parte dei programmi dell’associazione, riconoscendo nell’omosessualità degli adolescenti di origine straniera un problema in più da affrontare per chi proviene da famiglie culturalmente impreparate e si trova circondato dall’indifferenza, se non dall’ostilità, delle istituzioni del nostro paese.
“Chi si avvicina a noi in genere lo fa perché ha bisogno d’informazioni pratiche circa le norme sull’immigrazione, o perché vuole spendersi in qualche modo per l’organizzazione”, ci spiega Medhin. “Oppure ha semplicemente bisogno di riconoscersi in qualcuno di simile. Noi in in genere partiamo da un discorso interculturale generale per poi scoprire che anche le questioni glbt ci riguardano da vicino”. Rete G2 non dispone di dati precisi sul grado di difficoltà delle singole comunità straniere nel relazionarsi coi ragazzi omosessuali, ma riconosce che “a occhio, i gruppi etnici con una cultura religiosa forte fanno più fatica ad affrontare certi temi. Questa è la grande differenza tra l’essere figlio d’immigrati e gay, lesbica o trans: come persone glbt siamo soli. Da adolescenti non abbiamo una comunità o una famiglia di riferimento, ci mancano i modelli culturali. Certo, crescendo poi uno la comunità se la crea da solo…”.
Non ci sono state resistenze di sorta a parlare di omosessualità nell’ambito di Rete G2, perché, secondo Medhin, “partiamo da un discorso d’inclusione e io non mi aspettavo niente di meno. Abbiamo riflettuto sul fatto che le similitudini tra il movimento gay e quello per i diritti dei ragazzi G2 sono innegabili: vien da sé unirne almeno in parte i percorsi. Io penso che darebbe una botta d’energia positiva a tutti”. La strada da fare è però ancora lunga, visto che la stessa Medhin riconosce quanto i ragazzi di Rete G2 “non abbiamo una conoscenza o un grado di accettazione maggiori dei nostri coetanei rispetto all’omosessualità. Inoltre, non sempre chi è parte di una minoranza usa la propria esperienza per non fare gli stessi torti ad altri di altre minoranze”.
Da esponente lesbica di seconda generazione dell’immigrazione eritrea, Medhin non si sottrae a qualche domanda più personale. Ci racconta di aver studiato all’accademia di belle arti, di lavorare come fotografa e di far parte del gruppo elettro-folk Fiamma Fumana. Figlia unica di genitori eritrei (“cosa strana per una famiglia africana; in compenso ho una marea di cugini”) arrivati in Italia negli anni Settanta, Medhin ammette le difficoltà di fare coming out all’interno della comunità di origine, l’unico ambito nel quale nessuno sa di lei. “Sul tema glbt è indietro anni luce. Almeno l’essere gay è contemplato, seppure con accezione negativa. L’essere lesbica invece non è neppure previsto, tanto che in tigrigna, la lingua ufficiale dell’Eritrea, non esiste proprio la parola per definirci. Ed è un un grosso ostacolo: non conoscere i termini e non padroneggiare appieno la lingua mi rende meno sicura nell’affrontare una conversazione a riguardo. Inoltre, non dirlo ai miei genitori significa anche evitare loro di dover rispondere a certe domande per conto mio”.
L’attivista di Rete G2 è in contatto con pochi altri gay e lesbiche eritrei, “tutti figli d’immigrati come me, in Italia o all’estero. Gli omosessuali che vivono in Eritrea non escono allo scoperto e della vita glbt di laggiù, se c’è, non si sa nulla: è un argomento di cui non si osa proprio parlare”. In passato non ha subito episodi di omofobia, mentre non può dire lo stesso del razzismo che lei definisce “ordinario”. “Però non amo parlare di razzismo: non ne nego l’esistenza e penso che sia una piaga. Solo, non voglio dover vivere in costante autodifesa. Preferisco giocare d’attacco, non violento, sia chiaro!”. Nemmeno i gay o le lesbiche italiani sono più razzisti della norma, perché “sono lo specchio della cultura di cui fanno parte, nei pregi e nei difetti. Eppure, non vedo mai persone di altre origini etniche nei locali o associazioni glbt: molto spesso sono l’unica”.
Medhin osserva che al grave ritardo delle istituzioni italiane in fatto di diritti glbt la società civile oppone invece un cambiamento molto rapido, persino nell’intorpidita e immobile Italia. E lei sembra affrontare gli ostacoli con una fiducia apparentemente incrollabile nelle proprie risorse personali: “La visibilità forzata data dalla mia pelle scura mi ha costretto fin da piccola a imparare a gestire tutti i tipi di situazioni, cosicché ho avuto modo di sviluppare un’identità forte. Ho però capito che il fatto che non si veda che sono lesbica, rispetto all’essere nera, a lungo andare diventa un problema: certi processi di costruzione dell’identità vengono solo rimandati”.
Al di fuori di Rete G2 ci sono molti altri ragazzi che condividono con Medhin l’equilibrismo difficile tra la propria origine straniera e l’identità omosessuale. Come Alberto, Javier e Nabil, tutti e tre ventitreenni, figli di genitori provenienti rispettivamente dalla Cina, dal Perù e dal Marocco. Nessuno dei tre ragazzi interpellati frequenta attivamente l’associazione, pur essendo vagamente al corrente della sua esistenza.
Alberto è nato a Milano e vive nell’hinterland. Studia design della moda e nei fine settimana lavora come commesso in un negozio di abbigliamento del centro. I genitori sono divorziati: il padre è imprenditore e la madre casalinga si è risposata con un italiano, dal quale ha avuto due figlie. Non ha ancora fatto coming out e frequenta molto poco gli altri cinesi. Solo gli amici italiani sanno che è gay, perché “tra i cinesi l’omosessualità è ancora un forte tabù. I genitori non hanno gli strumenti per capire questa condizione, per cui dichiararsi gay sarebbe incomprensibile, visto che soprattutto dal figlio maschio si aspettano che si sposi e metta al mondo dei figli. Anche se la Cina di oggi cambia alla velocità della luce e per i gay di laggiù c’è una relativa tolleranza, i miei provengono da un piccolo centro e quindi si sono portati dietro le usanze di vent’anni fa. E così sono costretto a nascondermi per paura di essere emarginato dalla comunità cinese di cui faccio comunque parte. Neppure è facile recidere i forti legami, fatti di sostegno reciproco, che i cinesi stabiliscono tra di loro, perché spesso sono di tipo economico e stando qui in Italia sono indispensabili”.
Alberto si dichiara gay e contento di esserlo: “La vivo come una cosa bella e naturale. Allo stesso tempo mi sento perennemente in bilico tra due opposte interpretazioni della mia vita. Mi sento in tutto e per tutto italiano, ma è la legge italiana e il rifiuto che avverto da parte degli altri italiani che a un certo punto della mia vita mi hanno fatto sentire straniero”.
Anche Javier è nato e vive a Milano coi genitori – arrivati in Italia alla fine degli anni Ottanta – e due sorelle, mentre una terza sorella è sposata. Il padre fa il cuoco e la madre la collaboratrice domestica. Studente d’architettura, d’estate lavora come barista. In passato usciva spesso con altri gay sudamericani arrivati in Italia da bambini, ma a causa dei rispettivi impegni ora li ha persi di vista. A entrambi i genitori Javier ha rivelato di essere gay, ma il padre ha reagito meglio della madre. “Di essere gay l’ho capito molto piccolo, ma non l’ho mai vissuto come un problema, e nella mia ingenuità di ragazzino pensavo che sarei morto portandomi dietro questo segreto”.
Più che per una questione religiosa, Javier pensa che il rifiuto dell’omosessualità da parte dei peruviani derivi dalla tradizione machista. A parte un’occasione durante le superiori nella quale un compagno l’ha insultato dopo aver scoperto che usciva con un ragazzo, non ha subito particolari episodi di omofobia. Javier ha ottenuto da pochi mesi la cittadinanza italiana, ma la condizione di apolide subita fino a ora ha esasperato in lui “la sensazione spiacevole di non essere accettato del tutto da questo paese, per cui credo che non sarò mai davvero italiano: è come se rimanessi sempre in mezzo a due mondi. Questo rifiuto mi ha spinto a indagare di più la mia identità peruviana, tanto da voler sapere di più del paese dei miei genitori, nonostante ci sia stato pochissime volte”. Ora che alla richiesta dei documenti può sfoggiare una normale carta d’identità italiana, osserva con soddisfazione “l’espressione stupita dei funzionari che cominciano a capire che l’Italia sta davvero cambiando”.
Nabil vive invece con la madre e la sorella a Brescia: i genitori commercianti sono divorziati e ha inoltre due fratelli più grandi che vivono per conto proprio. È arrivato in Italia dal Marocco all’età di due anni, studia giurisprudenza e non conosce altri gay marocchini o arabi, poiché frequenta “solo amici italiani fin dall’infanzia. Forse sono così integrato che non riesco ad avere rapporti con i miei originari concittadini”.
In famiglia solo uno dei suoi fratelli è a conoscenza della sua omosessualità, scoperta per caso: “Tra di noi vige un po’ la regola del ‘don’t ask, don’t tell’. Credo che lo dirò apertamente solo quando avrò acquistato la completa indipendenza economica”. Si definisce “un gay libero e sereno”, con gli amici e i colleghi di corso ha fatto coming out e da allora tutti i loro rapporti sono migliorati.
Non ha mai subito episodi di razzismo né di omofobia, forse perché possiede “un livello di scolarizzazione piuttosto elevato e forse perché la mia carnagione olivastra non è così scura”. Come gli altri due intervistati, anche Nabil ha sopportato per anni il lungo processo di naturalizzazione come cittadino italiano, concluso da poco, “però io mi sento in tutto e per tutto italiano: conosco il Marocco come lo conosce un turista, non parlo arabo, giusto un po’ di dialetto marocchino. Credevo ingenuamente che il fatto di essere circonciso potesse essere un segno riconoscibile della mia origine straniera, ma mi sbagliavo: ho scoperto che anche diversi italiani lo sono!”.
Grazie a questa intervista, probabilmente Alberto, Javier e Nabil verranno coinvolti dalle attività di Rete G2, che il 28 giugno ha tenuto il primo incontro sulle seconde generazioni glbt nei locali di G.Lab in via Dogana 2 a Milano.
Nel frattempo Medhin Paolos annuncia che l’associazione sta collaborando col pedagogista interculturale Massimo Modesti, con Helen Ibry, ricercatrice di antropologia e presidente di ArciLesbica Zami, con Antonia Monopoli responsabile dello Sportello trans di Ala Milano onlus e con alcune altre persone in Italia e all’estero che da anni si occupano di temi glbt “su un progetto interessante di cui vi racconterò appena sarà sviluppato meglio”.