Basta con i fiocchetti rossi. Non accontentatevi della consueta distribuzione di preservativi nelle piazze o nei locali. Ormai è palese: le azioni simboliche e la sensibilizzazione una volta all’anno contro l’Hiv non bastano.
Lo dice a chiare lettere il rapporto del ministero della Sanità aggiornato al 2012 e pubblicato il 12 novembre: “Il numero delle nuove diagnosi di infezione da Hiv in MSM è cresciuto del 18,7% tra il 2010 e il 2012, mentre è diminuito il numero delle nuove diagnosi di infezione da Hiv in maschi eterosessuali del 7%, in femmine eterosessuali del 15,7% e in IDU (injection drug users, ovvero i tossicodipendenti) del 20,9%, nello stesso periodo”.
In parole semplici, mentre il numero di nuove diagnosi di infezione da Hiv diminuisce o si mantiene stabile in tutti gli altri gruppi di popolazione, tra i gay e gli altri maschi che fanno sesso con maschi (MSM) aumenta. L’immagine della situazione sta nel grafico che pubblichiamo: una linea in preoccupante risalita che svetta su tutte le altre. Alla faccia di chi diceva che l’Hiv era diventato ormai una malattia degli eterosessuali…
“Dobbiamo smetterla di impermalosirci quando si accosta Hiv e omosessualità e comprendere che il rischio di infettarsi con l’Hiv per i gay e per le trans è molto maggiore rispetto al resto della popolazione”. Lo conferma anche il segretario nazionale e responsabile salute di Arcigay, Michele Breveglieri: “Quella degli MSM è una vulnerabilità strutturale accertata, che prescinde dalle scelte relative al sesso sicuro: innanzitutto perché nel gruppo dei gay e degli altri maschi che fanno sesso con maschi c’è una prevalenza talmente più alta che nel resto della popolazione che le probabilità per un gay di esporsi al virus sono molto maggiori.
Inoltre è anche ormai chiaro che nel rapporto anale la trasmissione dell’infezione è più facile che nel sesso vaginale o addirittura orale. E poi c’è una terza questione, più complessa, relativa ai tipi di network che si creano nella comunità gay”.
Anche se si tratta di un argomento delicato, proviamo ad affrontarlo: “Sappiamo che una persona che ha appena contratto l’Hiv e quindi, nella stragrande maggioranza dei casi, non sa ancora di averlo, per circa un mese o due ha nell’organismo una grande quantità di virus e quindi trasmette molto più facilmente l’infezione; se in questo periodo questa persona ha diversi rapporti sessuali, come succede normalmente nei gruppi di persone che fanno sesso frequentemente, si può creare una rete di diffusione”.
Quindi, pur rispettando in maniera totale e indiscussa i liberi comportamenti di ciascuno nel campo della propria sessualità responsabile, è però evidente che chi scopa quattro, cinque, dieci volte alla settimana rischia di più di contrarre l’infezione o, nel caso l’abbia già inconsapevolmente contratta, di trasmetterla.
“Ma non bisogna pensare che solo i gay che scopano in continuazione possano entrare in questo meccanismo” – precisa Breveglieri – “ci sono gay che lo fanno solo saltuariamente e per questo magari si percepiscono meno a rischio ma se uno di loro, anche in una sola occasione, entra in contatto con un network di questo tipo, ecco che la sua probabilità di prendere il virus diventa improvvisamente più alta”.
Qualcuno potrebbe obiettare: “Basterebbe usare sempre il preservativo!”. Sante parole. Peccato che sia molto più facile a dirlo che a metterlo in pratica: sicuramente nel campo della disponibilità dei preservativi e della diffusione di comportamenti sessuali che ne prevedano l’uso sistematico si può e si deve fare di più.
Usare sempre il profilattico nel rapporto anale ed evitare lo sperma in bocca nel sesso orale restano i comportamenti basilari, economici e relativamente facili da adottare, per evitare di contrarre l’Hiv.
Ma se dicessimo che la prevenzione si limita a questo, rischieremmo di abbandonare a se stessi tutti quelli che, pur consapevoli delle conseguenze, non usano il preservativo regolarmente o non sanno resistere alla tentazione di assaporare il frutto dell’orgasmo.
Fortunatamente la prevenzione nel corso degli anni è cresciuta: nuovi mezzi hanno dimostrato di essere efficaci nel ridurre il rischio, alcuni in maniera addirittura simile all’uso del preservativo. “C’è un crescente bisogno di informazione sulla nuove tecniche di prevenzione”, ha dichiarato perciò Ferenc Bagyinszky, vicepresidente dello European AIDS Treatment Group durante una recente udienza del Parlamento europeo su Hiv e persone glbt: “oltre all’uso del preservativo e ai programmi mirati a modificare il comportamento sessuale e l’assunzione di rischio da parte dei maschi gay, ci sono altre opzioni ma queste o non sono state affatto discusse oppure l’informazione che è stata data per passaparola nella comunità gay è inadeguata”.
Le nuove opzioni a cui fa riferimento Bagyinszky sono conosciute con tre buffe sigle: TasP, PEP e PrEP. TasP sta per treatment as prevention e fa riferimento a quanto già affermato nella Dichiarazione svizzera del 2008 e confermato dallo studio HPTN 052 nel 2011: le persone con Hiv che seguono correttamente una efficace terapia antiretrovirale e non hanno altre malattie a trasmissione sessuale non sono in grado di trasmettere l’infezione attraverso il sesso. Non si tratta di opinioni, ma di realtà dimostrate scientificamente: il trattamento anti-Hiv, oltre a garantire un miglioramento dello stato di salute della persona che lo assume, riduce drasticamente anche il rischio che questa persona trasmetta ad altri l’infezione. Questo dovrebbe anche aiutare chi nutre ancora immotivate paure ad avvicinarsi a una persona con Hiv a rilassarsi… Allontanare chi vive con il virus è un comportamento, purtroppo ancora diffuso anche nella comunità gay, che non ha alcuna giustificazione né sanitaria né umana.
Ma torniamo alle nostre sigle: PEP sta per profilassi post-esposizione. In pratica, se una persona sieronegativa si espone al rischio di contrarre l’infezione (ad esempio, la classica rottura del condom…) può recarsi entro poche ore – massimo 72 – presso un pronto soccorso o un reparto di malattie infettive dove il medico potrà prescrivere un mese di terapia antiretrovirale per impedire che contragga l’infezione. La PrEP, invece, non è ancora usata in Italia ma negli Stati Uniti è disponibile per persone sieronegative ad alto rischio di infezione; consiste in un farmaco anti-Hiv da prendere quotidianamente per evitare di contrarre l’infezione.
Insomma, gli strumenti per non infettarsi con l’Hiv sono numerosi e articolati: “Basta con la comunicazione generica che si esaurisce imponendo il preservativo sempre – conferma Michele Breveglieri – Il principio è che ognuno deve essere informato e orientato a capire quale e quanto rischio è disposto ad assumersi”.
Per arrivare a questa consapevolezza, però, i gay dovrebbero avere accesso agevole alle informazioni sulla loro salute sessuale. Ma non sembra che il rapporto tra persone glbt e sistema sanitario nazionale sia idilliaco: già alcuni anni fa la ricerca Modi di aveva evidenziato che un’ampia maggioranza di gay (78%) e ancora più di lesbiche (87%) evita di parlare col medico del proprio orientamento sessuale.
E la recente ricerca Arcigay Pratiche positive traccia un quadro desolante dell’atteggiamento del personale sanitario nei confronti delle persone con Hiv: “Due persone su tre riferiscono di essersi sentite trattate diversamente o ingiustamente a caso del proprio stato sierologico”, riferisce Gabriele Prati, curatore scientifico della ricerca.
Quindi la nuova prevenzione sarebbe utile, ma non c’è un servizio che la renda disponibile alla popolazione a cui servirebbe, cioè ai gay.
Forse pensare che lo Stato, cioè il sistema sanitario nazionale, riesca a fornire servizi adeguati alla popolazione omosessuale è velleitario: ne è convinto Sandro Mattioli che, dopo aver lasciato il settore salute di Arcigay Cassero, ha fondato da poco più di un anno Plus onlus, il primo network di persone glbt sieropositive (www.plus-onlus.it): “Certi servizi dovrebbero fornirli direttamente le associazioni” spiega, “quando lo Stato fa prevenzione, e la fa molto poco, la fa male; invece in altri paesi è normale che le istituzioni pubbliche affidino alle associazioni il compito di elaborare messaggi da veicolare ai membri della loro comunità. E questo funziona, perché noi associazioni siamo più in contatto con le persone a cui ci rivolgiamo. Abbiamo meglio il polso della situazione, possiamo agire dove i problemi si annidano, possiamo usare linguaggi più efficaci rispetto a quelli istituzionali assoggettati a vincoli culturali, politici e a volte anche religiosi. Il buffo è che in Italia ci sarebbero anche le leggi per realizzare una collaborazione di questo tipo: la tanto sbandierata sussidiarietà orizzontale non è un modo perché la Asl affidi dei servizi alle associazioni per spendere meno, ma una reale collaborazione in pari dignità per realizzare interventi più efficaci”.
In quest’ottica si colloca il progetto BLQ Checkpoint che Plus onlus sta realizzando a Bologna: “Si tratta di un luogo gestito dalla comunità glbt per accogliere la comunità glbt”, spiega Mattioli. “Sarà possibile fare il test Hiv e anche per altre malattie a trasmissione sessuale in maniera rapida, sicura e in completa riservatezza. Ma sarà anche un posto in cui poter parlare dei propri dubbi con operatori alla pari cioè simili a te: uomini gay, ragazze lesbiche, persone trans formati professionalmente per dare consulenza sulla salute sessuale ad altri gay, lesbiche o trans. Esperienze simili sono già state realizzate a Barcellona, Lisbona e persino Zagabria o Atene: si sono dimostrate ovunque efficaci nell’aiutare a fare regolarmente il test Hiv e a migliorare così l’accesso ai servizi sanitari delle persone glbt”.
Un progetto del genere richiede uno sforzo notevole: “Abbiamo già stabilito i termini della collaborazione con la Asl e il Comune si è pronunciato più volte a favore del progetto”, continua Mattioli, “abbiamo anche individuato la sede dove poter aprire il servizio e aspettiamo che il Comune provveda all’assegnazione definitiva. Per i lavori di ristrutturazione, però, serviranno parecchi soldi”. Per questo la sera del 1° dicembre ci sarà a Teatri di Vita a Bologna uno spettacolo di raccolta fondi a sostegno del progetto che vedrà avvicendarsi sul palco artisti come Alessandro Fullin, Clelia Sedda, LaLa McCallan, Coconette, Mario Sucich e Paolo Gorgoni.
Ma se abbiamo dovuto attendere il 2013 perché le statistiche ufficiali riconoscessero la vulnerabilità all’Hiv dei gay e degli altri maschi che fanno sesso con maschi, quanto dovremmo attendere per avere dati attendibili sulla situazione tra le persone transessuali?
“I report ufficiali del ministero non presentano dati per la popolazione trans”, riferisce Ottavia Voza, presidente Arcigay Salerno: “Abbiamo pochi dati anche a livello europeo; le uniche ricerche vengono dagli Stati Uniti e riguardano solo la quota di transessuali che fanno lavori sessuali, tra cui si registra una prevalenza del 50%. Cioè una sex-worker transessuale su due ha l’Hiv: ma sappiamo che in Italia solo il 20% delle transessuali lavora nella prostituzione”.
Valerie Taccarelli, membro del MIT e di Plus onlus, conferma che “tra le persone transessuali non c’è molta attenzione al tema dell’Hiv: nella maggior parte dei casi, le informazioni che mi vengono chieste sono da parte di persone trans migranti, spesso senza permesso di soggiorno, che non sanno come ricevere le cure. Ma dopo un primo incontro, non ne seguono altri: sembra che spariscano e non c’è modo di capire se intraprendono un percorso di cura”.
Secondo Ottavia Voza, questo atteggiamento è dovuto al solito doppio stigma: “Quando cerchiamo di portare l’argomento dell’Hiv nei gruppi di persone trans, la risposta più comune è che siamo già tanto discriminate che parlare del virus rischierebbe di aggiungere ulteriori discriminazioni. Anche quando mi capita di incontrare persone trans che conosco nei reparti di malattie infettive fanno finta di non vedermi. Dal punto di vista dell’attivismo, quindi, la sfida è cercare di capire quale possa essere un approccio efficace per trattare l’argomento”. “Servirebbe da un lato una campagna di informazione che sensibilizzi le persone trans su questo tema”, aggiunge Taccarelli, “dall’altro una ricerca fatta in maniera seria per capire criticità e bisogni”. E forse anche di questo dovranno farsi carico le associazioni.