Negli ultimi mesi la violenza delle frange estremiste di certo islam ci ha inorridito. “Je suis Charlie” è una scritta ormai piuttosto familiare, riutilizzata in pochissimo tempo fino alla saturazione verbale (ed emotiva). I fatti di Parigi non sono i soli di cui abbiamo memoria. Dal medio oriente ci giungono le notizie, e purtroppo le immagini, del pilota giordano arso vivo e quelle dell’uomo condannato a morte per sospetta omosessualità, lanciato dall’ultimo piano di un palazzo e poi lapidato.
Episodi come questo non trovano giustificazione alcuna. Fanno parte del lato oscuro che ogni essere umano ha dentro e hanno la peculiarità di essere commessi in nome di un’identità religiosa e (sovra)nazionale. Quel “certo Islam” si ribella all’occidente (oppressore): questo il messaggio che ci giunge attraverso i media. Vero è che, almeno dai tempi della primavera araba, nel mondo a cavallo tra Mediterraneo e Mesopotamia si sente una forte esigenza di cambiamento sociale. In quei contesti in cui ci si è trovati al cospetto di una tirannide, tuttavia, orrore ha generato nuovo orrore: Libia, in una certa misura Egitto, Siria. Qui soprattutto, l’isis sembra essere non tanto la risposta a un cambiamento ma ciò che succede quando il potere non ha la capacità o l’umiltà di rinnovare se stesso in modo più democratico. Il vuoto conseguente viene colmato da progetti folli e criminali: quelli che accendono roghi e uccidono presunti omosessuali, appunto.
Ciò ci fa orrore, giustamente. Ma ci fa fare anche un errore: appiattire il complesso mondo musulmano su quello di terrorismo islamico. Per capirne l’assurdo, è come se si facesse un tutt’uno di certi crimini contro i minori perpetrati da settori della chiesa cattolica e la massa di fedeli. Così come non si può dire che tutti i cristiani siano pedofili, è violenza semplificare l’islam riducendolo all’isis, ad Al Qaeda o ad organizzazioni similari.
Certo, le differenze culturali tra i due mondi rimangono e questo è innegabile. Eppure ci sono alcune analogie che entrambi gli universi (quello occidentale-cristiano e quello orientale-musulmano) presentano nei confronti dell’omosessualità, nella sua “gestione” e nella soluzione della problematica che ne consegue. Pur nella differenza, l’elemento comune è la condanna religiosa.
Dio, così come Allah, non ama particolarmente i gay. E per Dio intendiamo anche quello degli ebrei (ricordiamoci Sodoma e Gomorra). Da questa evidenza discendono secoli di violenze contro i sodomiti prima e gli omosessuali poi.
Franco Buffoni, nel suo Laico alfabeto in salsa gay piccante, parla di religioni abramitiche: i tre grandi monoteismi, per ragioni politiche e di controllo sociale, hanno deciso di inserire la repressione delle diversità sessuali tra gli aspetti caratterizzanti del loro agire nella società. Certi aspetti di questa repressione sono estremamente brutali e ci spaventano, trasportandoci in una dimensione lontana, geograficamente e culturalmente. Ma siamo proprio sicuri che quella stessa radice non produca oppressione, seppure di natura diversa, anche nella nostra civiltà?
Ricordiamo il recentissimo referendum in Slovacchia, che mirava a limitare fortemente i diritti delle persone lgbt. Voluto dalla Chiesa locale e supportato dalle massime rappresentanze vaticane. Per fortuna fallito. Ma il fine era semplice: non permettere a gay, lesbiche e persone trans non certo di “non vivere”, bensì di non vivere come tutti gli altri individui. Ma limitare uno spazio vitale non significa forse prendersi un frammento delle nostre esistenze? E quanto grande può divenire, a lungo andare, questo processo di sottrazione?
Per chi pensasse che tale paragone tra “integralismi” nostrani e altri eccessi sia forzato, ricorderò l’opposizione vaticana alla depenalizzazione omosessualità, proposta nel 2008 dalla Francia all’Onu.
La motivazione era esemplare: non si possono discriminare i paesi che hanno un’altra idea su questioni come la condotta sessuale, le sue conseguenze sul piano del riconoscimento pubblico e altri elementi di dibattito pubblico (matrimonio, adozioni, ecc).
Il Vaticano votò insieme a quei paesi come Arabia Saudita e Iran che tutt’oggi condannano a morte i gay. Un concetto di libertà decisamente pittoresco, le cui conseguenze sono culturalmente omogenee: impedire che il gay “viva”, del tutto o parzialmente, la sua esistenza. Sotto l’occhio vigile di Dio. Poco importa il modo in cui decliniamo il suo nome.