Potrebbe essere un classico “delitto della camera chiusa”: la vittima viene uccisa dall’interno, i colpevoli sono i suoi stessi compari e l’omicidio avviene senza lasciare tracce. È in ogni caso un “delitto perfetto”: gli assassini si sono premurati di far sparire il corpo, tanto che a un certo punto sembra che la vittima non sia mai esistita…
Non stiamo parlando di un cadavere in carne e ossa, nonostante le conseguenze di questo “assassinio” stiano cominciando a farsi sentire sempre più concretamente nella vita di tutti i giorni, almeno dal punto di vista della comunità gay italiana. La “vittima” in questione è proprio la parola gay: è solo un’impressione, o il suo utilizzo si sta facendo sempre più sporadico nelle manifestazioni pubbliche del nostro movimento, così sfilacciato e distratto da perdersi per strada le proprie radici fondamentali? Cerchiamo di capire se si tratta solo di trascurabili questioni lessicali e se, come ogni rompicapo alla Agatha Christie che si rispetti, di questo “crimine” conosciamo già i colpevoli ma ci manca di scoprire come si sono svolti i fatti.
La storia del termine “gay” usato dagli omosessuali di tutto il mondo per indicare se stessi è abbastanza recente, anche se la parola, che deriva dal provenzale antico gai nell’accezione di “allegro, che dà gioia”, ha visto deteriorare il proprio significato col passare dei secoli, fino a riguardare l’omosessualità nella lingua inglese soltanto a partire dagli anni Venti del secolo scorso.
Lo spartiacque definitivo è il 1969 e il fermento culturale e politico che seguiva i moti di Stonewall, grazie ai quali gli omosessuali americani decidevano che fosse ormai giunto il momento di scegliersi una definizione diversa da tutte quelle usate dal mondo eterosessuale per indicarli in senso denigratorio.
Prelevata dal proprio gergo colloquiale, quindi, la parola gay comincia da allora a rappresentare pubblicamente tutte le componenti del movimento di liberazione omosessuale nel Gay Liberation Front e in tutte le sue declinazioni del mondo occidentale.
In Italia il termine prende piede nel linguaggio corrente un po’ più tardi, a partire dagli anni Ottanta. Dall’accezione di allora che indicava in particolare l’omosessuale fiero e politicamente militante si è arrivati a quello di oggi, dove gay e omosessuale maschio sono diventati praticamente sinonimi.
Eppure l’utilizzo continuo del termine ne ha ulteriormente modificato il senso originario laddove la parola aveva maggiormente attecchito: oggi negli Stati Uniti, come osserva Giovanni Dall’Orto in un suo articolo del 2005, “i ragazzini scrivono sui muri ‘Tizio è gay’, esattamente come dieci o vent’anni anni fa scrivevano ‘Tizio è culo’ o ‘ricchione’” […], al punto che ‘gay’ è diventato un sinonimo colloquiale di lame, boring, bad, cioè di ‘mediocre’, ‘noioso’, ‘brutto’, ‘schifoso o cattivo’”.
Di questo scivolamento lento del significato di gay verso concetti sempre più sgradevoli e negativi hanno subito approfittato gli avversari dei diritti omosessuali, quando si aggrappano a perifrasi ricercate pur di non scrivere o pronunciare le fatidiche tre lettere, “perché”, come spiega candidamente un seguace della pagina Facebook catto-nazi-omofoba “No ai matrimoni gay”, la parola “è una cosa che non va letta!”. Sulla stessa falsariga l’impareggiabile Costanza Miriano, madrina “sposata&sottomessa” del nuovo Family Day “Difendiamo i nostri figli” che si è svolto a Roma senza troppo successo il 20 giugno scorso, scrive sempre su Facebook che “a proposito di questioni lessicali, io rifiuto la parola gay”, mentre tra le pagine delle Sentinelle in Piedi, Manif Pour Tous et similia il termine gay viene sovente sostituito da tre asterischi, oppure gay e lesbiche vengono tirati in ballo con sprezzanti sinonimi come “gli lgbtqi” o “i pro-gender”.
Il lavoro di rimozione del termine è però cominciato molto prima, a cura di quegli stessi appartenenti al movimento che hanno deciso scientemente nel 2008 di trasformare, per fare un esempio, il milanese Festival Internazionale di Cinema Gaylesbico in un molto più “fighetto” (e anonimo) Festival MIX.
Negli stessi anni anche la tradizionale parata annuale del gay pride ha cominciato a subire un accurato processo di sterilizzazione lessicale in ogni angolo d’Italia dove avesse luogo: a partire dal 2009 la parola gay sparisce dai pride di Napoli, Milano, Catania, Roma, Torino per approdare ai vari odierni, tra gli altri, Padova pride village, Liguria colorata pride e Mediterranean pride (a Napoli), con effetti spesso grottescamente simili alle pubblicità dei villaggi turistici. Fino al trionfo definitivo degli scaltrissimi uffici marketing arcobaleno e i loro Onda pride del 2013 e Human pride del 2015.
Per capire per quali motivi lo stesso movimento gay del nostro paese fatica ormai a definirsi come tale, senza avere in realtà trovato nel linguaggio un’alternativa altrettanto efficace, ci siamo fatti aiutare da un ricercatore di linguistica che nel 2014 ha pubblicato un saggio pionieristico su questo tema: Il gergo gay italiano – Il Novecento e gli anni Duemila. Daniel De Lucia, 32 anni, vive in provincia di Chieti e ci spiega che dalla rimozione del termine gay discendono alcune ripercussioni pratiche di non poco conto, per cui “riflettere sull’argomento non è superfluo: pensiamo solo al fatto che oggi moltissimi magistrati – in media di età avanzata – quando giudicano i reati di ingiuria rifiutano di considerare il termine gay come un’offesa. È chiaro che in presenza di omofobia che si manifesta attraverso ingiurie e in assenza di una legge specifica, se in tribunale non entra il linguista o il grammatico viene a galla un problema generazionale difficilmente sanabile”.
Nel suo studio De Lucia ha verificato che l’ambito gaio si sta degergalizzando, ossia il suo linguaggio specifico sta diventando patrimonio comune, mentre nella galassia omofoba sta succedendo il contrario, cioè sta nascendo un modo di comunicare circoscritto ai suoi componenti: basti pensare all’ormai ampia letteratura gemmata in ambienti catto-fascisti sull’inesistente “ideologia gender”. La trasformazione dell’uso del termine gay ne è una delle dimostrazioni più lampanti.
Tra le cause di questa mutazione-sparizione, secondo De Lucia, c’è l’invadenza nel movimento gay italiano delle varie “Queer Theory”, che dalle aule degli studi di genere degli atenei a stelle e strisce sono state trapiantate a forza nella cultura gay italiana mettendo a rischio – “deostruendo” dicono i fautori – un’identità omosessuale nostrana che avrebbe al contrario bisogno di essere ancora consolidata.
“Ma questo è il piano teorico; da linguista devo invece guardare all’uso pratico della lingua nella vita di tutti i giorni. Io osservo che sia a livello personale sia accademico si ripetono situazioni in cui gay e lesbiche avvertono la necessità di tralasciare la parola che faccia capire di cosa stanno parlando davvero. Questo rivela meccanismi di omofobia interiorizzata molto seri, che si attuano non solo omettendo direttamente il lemma gay, come quando Alessandro Cecchi Paone parla di omoaffettività per dissimulare l’aspetto sessuale dell’essere gay, ma anche quando all’interno della comunità gay maschile si smette si scherzare chiamandosi al femminile, perdendo così la dimensione dell’ironia e del gioco che permeava questo tipo di dinamiche. Lo si fa per far meglio digerire un messaggio considerato problematico, certo, ma ciò nasconde il terrore di ridursi proprio a ciò che da cui si vuol prendere distanza, la sessualità. Sono meccanismi di autocensura che ho riscontrato in molti parlanti appartenenti alla comunità del nord, centro e sud Italia e che la psicologia ha già verificato da tempo. Succede meno tra i gay al di sopra dei cinquant’anni, quelli che hanno vissuto una storia d’Italia e un italiano diversi; il fenomeno va aumentando via via che l’età si abbassa e non dipende direttamente dal fatto che gli interpellati siano visibili o meno come omosessuali”. Oltre alla soppressione del lemma, De Lucia ravvisa omofobia interiorizzata anche nel campo “della morfologia delle parole, che indica genere e numero del parlante, e nella pragmatica, cioè la gestualità che accompagna l’emissione dei termini di un discorso. Il fenomeno tocca anche la fonetica, ossia l’emissione stessa del suono delle parole. Tutto questo controllo ha la funzione di dissimulare il proprio orientamento sessuale.
Quando Victoria Cabello ha intervistato Renzo Arbore nella trasmissione Very Victoria e gli ha chiesto come mai nel sud Italia non si usasse la e aperta come in bène, come da italiano corretto, lui ha risposto che questa cosa “sa molto di ricchione”. “Anche noi sociolinguisti abbiamo verificato una divaricazione tra nord e sud: tutte le varianti regionali del nord sanno di effeminato, rispetto alle varianti del centro-sud considerate più ‘maschie’. Pensiamo solo a quanto sia diffusa l’idea che il francese sia una lingua femminile, al contrario del tedesco, valutata come virile. Non a caso ci sono molti giornalisti che fanno corsi di dizione, imparano un italiano perfetto e vanno in video al TG1, poi tornano a parlare un italiano maccheronico per non essere confusi con ‘quelli lì’. Ecco: è importante scoprire come nascono questi stereotipi: vi si può rintracciare una base scientifica per poi disinnescare questi fenomeni”.
De Lucia sgombra il campo dall’idea che dietro il proliferare di sigle per definire la comunità (lgbtqiae…) ci sia soltanto un eccesso di politicamente corretto: “Nelle comunità anglofone l’arrivo della parola queer, che vuol dire proprio “frocio”, è funzionale, serve a raccontare un mondo gaylesbico fiero della propria diversità. In Italia invece l’uso del termine queer è maniacale e un po’ cialtrone: usiamo le parole inglesi senza conoscerne la storia e il vero significato, come termini-ombrello che alla fine annullano, appiattiscono il senso originario. E questa è una posizione di comodo omofoba. Eppure la lingua italiana ha già tutti i mezzi per dominare questi fenomeni, mentre i prestiti dall’inglese non li risolvono e ne creano altri. Basterebbe usare lemmi che già abbiamo nella nostra storia, come ad esempio uranista o tribade”.
Se da una parte l’uso del termine gay sta diventando sempre più problematico, impazza anche tra i sostenitori delle cause arcobaleno l’utilizzo improprio dei termini specifici, come outing al posto di coming out: “Non è sbagliato che si risemantizzi una parola, perché i significati cambiano col tempo: è già segno che la discussività vince sulla teoria linguistica. Il problema è che quando si risemantizza un lemma senza regole precise, tutti possono dire tutto; rimanendo nell’esempio, quando si vuole usare la parola outing nel senso di ‘sputtanamento’ dell’omosessualità altrui, non si ha a disposizione un termine adatto.
Da parte mia ho cercato di portare questi argomenti all’Accademia della Crusca, affinché i vocabolari comincino a trattare il problema. Nel mondo anglosassone la politica linguistica funziona, c’è l’uso del politicamente corretto perché tutti recepiscono una morale e si comportano di conseguenza anche nella lingua che usano. In un sistema italofono funziona invece più la regola della morale, per cui finché una parola non è codificata in un dizionario vige il caos linguistico. L’errore che il movimento gay sta facendo è di puntare solo sui diritti civili, senza entrare nella grammatica, mentre invece ci dovrebbe essere continuità tra discipline. La lingua non è solo cultura e la cultura non è soltanto lingua”.
De Lucia è stato il primo in Italia a introdurre la nozione di Linguistica Lavanda, (il colore fa riferimento a quello solitamente associato a gay e lesbiche negli Stati Uniti), che studia il linguaggio gergale degli omosessuali. Oltre a mettere in discussione e aggiornare gli antiquati studi di linguistica femminista, dagli anni Novanta – da noi dai Duemila – la LL “propone tra l’altro importanti questioni di traduttologia, come quando mette a confronto la discutibile prima traduzione italiana de La lingua perduta delle gru di David Leavitt, dove si rendeva ‘darkroom’ come ‘camera oscura’, a quella più competente de Il Pasto Nudo di William Burroghs, dopo la quale la traduttrice ha scritto una nota di ringraziamento per la consulenza sul gergo gay degli anni Cinquanta. E infatti la qualità della versione era altissima: questo significa che se ignori la cultura di riferimento, non puoi che fare brutti scivoloni. Oggi c’è maggiore consapevolezza e si sta molto più attenti, anche dal punto di vista del commercio del prodotto libro”.