La teoria queer ritiene che non si possano dare identità comuni, se non come gabbie esterne, come strumenti di oppressione del potere. L’idea che l’identità sia anche l’esatto opposto, ossia la leva per spezzare le gabbie del potere, non li sfiora mai. Come se gli austriaci, quando volevano continuare a dominare l’Italia, fossero andati in giro a dire: “Siete tutti italiani, l’imperatore d’Austria ha deciso che dovete essere italiani” anziché affermare, come in effetti affermarono: “L’Italia è una mera definizione geografica”. E come se coloro che desiderano opprimere gli omosessuali andassero in giro a dire: “Siamo tutti omosessuali”, anziché “l’omosessualità, non esiste”.
Ma tant’è. I dogmi sono comodi perché possono sì essere anche stupidi e contraddittori, ma non per così poco devi smettere di crederci. E quindi per i queer le identità continuano a essere camicie di forza imposte dall’esterno. È per questo che la loro prassi li obbliga a moltiplicare all’infinito le definizioni. Non è possibile lottare contro la “eteronormatività” e l’omofobia sulla base di ciò che siamo. Noi non siamo nulla, quello che siamo, lo siamo solo perché è in quell’identità che il Potere ci ha fatto essere, con la forza: maschi o femmine, gay o etero o bi, trans o cis… Per essere liberi dobbiamo liberarci da tutte le identità: “Siamo certi che il rafforzamento dell’identità sessuale della persona produca un moto liberatorio, o non va invece nella direzione opposta, e non è forse reazionario in quanto serve proprio a far controllare meglio”, scrive un mio corrispondente queer.
La risposta è ovviamente “no”, perché l’identità gay è stata creata dagli stessi gay, mentre il Potere ha sempre fatto di tutto per impedirne la formazione, affermando che l’omosessualità non esiste se non come patologia, come fanno oggi le Sentinelle in piedi o i fautori delle terapie riparative. Lo ha fatto anche, io sostengo, attraverso la creazione della teoria queer nelle università che esso finanzia, usando gli accademici che esso stipendia e le case editrici che esso paga.
Contro gli omosessuali che volevano essere soggetti politici, ha inventato una teoria che li ha ridotti a semplici oggetti di infinite e inconcludenti teorizzazioni, nel nome di una comprensione “più alta” di quella, rozza ed elementare, di chi voleva la liberazione omosessuale.
Dimostrazione di quanto affermo è il piccolissimo problema di come sia possibile fare una battaglia identitaria come quella omosessuale dopo essersi liberati dall’identità omosessuale.
I queer ci hanno prontamente risposto che la lotta non va fatta in base alla condivisione dell’identità, bensì dei comportamenti: “Perché doversi riconoscere attraverso lo stesso nome e non attraverso la stessa pratica?” mi obbietta sempre lo stesso corrispondente queer. Una proposta interessante, perché ci riporterebbe alle origini: la “pratica condivisa” è infatti quella omosessuale femminile e maschile, ivi incluso il caso delle persone bisessuali (che in effetti, quando abbiano comportamenti eterosessuali non hanno proprio nessuna pratica “trazgressiva”). Tutto il resto, invece, sarebbe mancia, dato che la disforia di genere non è una “pratica” (è una condizione), come non lo è l’intersessualità, e figuriamoci poi l’asessualità, laddove l’eterosessualità è proprio la pratica NON condivisa.
La coerenza non è affatto il punto di forza dei queer. Infatti per loro la pratica condivisa è non quella omosessuale bensì un concetto molto più fumoso e indefinibile, quello di “trazgrezzione” (come dicono nei salotti TV) rispetto alla cosiddetta “eteronormatività”, una definizione talmente vaga e fumosa che ci sta dentro chiunque: queer, LGBT, ma anche asessuali (e qui la mia mente vacilla, perché cosa c’entra una persona che non prova nessuna pulsione sessuale con un gay e una lesbica, che invece la provano eccome?), intersessuali ma anche “queer” e per finire, inevitabilmente, anche eterosessuali, perché anche un “eterozezzuale tragrezzivo” può essere queer, per esempio se è sadomaso, tanto per dire.
Il risultato è che nessuno di noi, in questo quadro, sta lottando PER qualcosa. Stiamo tutti combattendo assieme CONTRO qualcosa, senza però avere un progetto comune. Il che implica che la strategia la decidono proprio coloro CONTRO cui ci limitiamo a reagire, senza agire di testa nostra. Loro propongono un progetto di società, e noi siamo quelli che siamo contro. Loro cambiano il progetto, e “noi” cambiamo, perché alcuni di coloro che prima erano contro quel progetto ora non lo saranno più, mentre ora altri che prima non lo erano, lo diventano. I queer la chiamano “fluidità”. Boh. A me pare solo elettroencefalogramma piatto. Non è pensabile che siamo noi ad avere un progetto di società, di vita: sarebbe “normativo”. Per questo siamo costretti a farci dettare la linea da loro. E quando si tratta di tradurre i deliri queer in proposte concrete, come per esempio nel caso della questione del matrimonio egualitario, i queer si schierano sempre dalla parte dei nostri nemici: “È un movimento invece di assimilazione-integrazione quello che richiede solo l’eguaglianza giuridica dei cittadini di fronte alla legge e l’inclusione dentro istituti socio-culturali dominanti.”, mi ammonisce ancora il mio corrispondente queer, ossia, il matrimonio è una trappola. Il che però è esattamente la stessa cosa che ci chiedono i cattolici, “ammonendoci” a non voler confondere la sacra unione eterosessuale con quella fra froci e lesbiche.
E qui delle due l’una: o stanno dicendo la stessa cosa entrambi, clericali e queer, o una delle due parti la sta contando giusta e l’altra sta sparando cazzate. Decidete voi quale delle due sia.