La vita pubblica negli anni Settanta di un gruppo di travestiti e omosessuali di Brescia rivive in un libro fotografico. Multe, diffide, persino il confino, ma nessun vittimismo: “Era sufficiente accettarmi da me”, come racconta l’autore di quegli scatti.
(prima pubblicazione Pride ottobre 2017)
Togliersi i tacchi e scappare: al comparire della polizia non c’era alternativa e il Carmine, da sempre quartiere di spaccio e prostituzione, era l’ambiente ideale dove trovare copertura in caso di necessità.
È la Brescia degli anni Settanta, città del tondino ricca e produttiva e luogo natale di quel Giovanni Battista Montini seduto al soglio pontificio, ma anche piazza di una comunità di travestiti e transessuali che per tutto il decennio abiteranno e si prostituiranno al numero 5 di vicolo Rossovera, subito soprannominato Casa delle Bambole.
Armando Borno è uno di loro e in vent’anni ha immortalato, in centinaia di fotografie, squarci di quelle vite e di quelle giornate folli e dannate.
Un materiale fotografico inedito e unico in Italia che viene pubblicato, in una sua selezione, nel libro Lei, Armando edito da Morellini editore, contenente anche una lunga intervista in cui Armando ricostruisce con le sue memorie un tassello dimenticato della storia dei diritti civili del Paese. Unico precedente analogo è la leggendaria raccolta di istantanee dei travestiti di Lisetta Carmi (le “preziose” di Genova) pubblicata nel 1972, con la differenza che in questo caso l’occhio fotografico è interno alla sottocultura rappresentata.
Il risultato sono una sequenza di fotografie sorprendenti nella loro eleganza e delicatezza, mai voyeuristiche o volgari: gli occhi spesso fissi in camera, a volte con il filtro di uno specchio, che creano un rapporto diretto col soggetto, e poi le pose lascive e scherzose, nelle brevi pause tra un rapporto e l’altro, e la compiaciuta esibizione del proprio corpo, di nudità maschili sotto piume di struzzo e paillettes.
Tra i soggetti ritratti ci sono anche le prime tre storiche travestite bresciane: Lea, Carlotta e Lora. Lea, soprattutto, fu un’istituzione: biondissima, vitino da vespa e piedini da Cenerentola e, per simulare il sesso femminile, un trucco di cui nessun cliente si accorgeva, un polmone di mucca con un piccolo taglio incastrato in mezzo alle gambe. Furono loro le prime temerarie che osarono andare a battere là dove neppure alle prostitute era concesso: dietro la Loggia, quel palazzo comunale roccaforte della DC e di una classe politica che cercherà di fermarle in ogni modo: multe, diffide e persino il confino. E tra i soggetti immortalati c’è il fotografo stesso, entrato nella casa nella seconda ondata, appena diciannovenne, dopo varie esperienze fatte tra la strada e la cima del campanile di una chiesa con il primo cliente: un parroco.
Non solo la vita pubblica di una delle prime comunità italiane di travestiti quindi, ma anche quella privata di Armando, se una demarcazione si può tracciare quando la propria abitazione è il luogo di lavoro e quando le ore lavorative non si distinguono da quelle di riposo, mischiate in interminabili giornate di settantadue, novantasei ore, sempre senza dormire, tenuti svegli dal Preludin e dalle altre iniezioni di anfetamine. Due volte in carcere per questioni di droga, e sempre rilasciato; chiamato alla leva, si presentò a Torino truccato a giorno con collo di volpe e cappotto cammello e la folla di soldati nel vederlo si aprì come il Mar Rosso: “Lei che ci fa qui?”. “Mi avete chiamato voi, ecco la cartolina”, e in caserma scoppiò il finimondo.
L’adolescenza in paese e le prime marchette, la fede religiosa e le complicate trattazioni in confessionale, perché Armando spiattellava sempre tutto, e un giorno trovò un prete che si rifiutava di dargli la comunione non tanto per il suo lavoro, che forse colse il religioso impreparato sul numero di Avemaria da impartire, ma in quanto divorziato. Già, perché tra le traversie della vita di Armando ci sono anche le nozze con Daniela, una donna lesbica che si innamorò di lui nelle sue doppie vesti notturne e diurne. Con la sua femminilità vorace lo sedusse convincendolo al grande passo: lasciare la strada, accasarsi, aprire addirittura un bar. Ma il matrimonio naufragò presto e il ritorno sulla strada fu fatto con una tenacia maggiore di prima: non più cicaletta spensierata ma lavoratore indefesso. E infine gli aneddoti sui clienti e le loro bizzarrie, tra l’aumentare esponenziale dei sadomasochisti negli ultimi anni e i burberi novantenni che salivano a fatica le scale della casa.
Anni di spensieratezza e follie autodistruttive, spesso culminate in tragedie, come il suicidio della Castellana o la morte della Rina col suo pechinese a causa delle esalazioni di monossido di carbonio della stufa malfunzionante. Donne e uomini che pur tra mille parei, sottovesti e abiti di chiffon, al contrario dell’odierna autonarrazione LGBT, hanno sempre rifiutato di indossare i panni dei perseguitati. Nessuno di loro ha mai preteso di essere “accettato” perché, come dice Armando, “Era sufficiente accettarmi da me”, e il quartiere li amò.
Una testimonianza fotografica e di vita che, al valore storico, documentario ed estetico, aggiunge una polemica presa di posizione contro certo odierno rivendicazionismo vittimistico in cui rischia di soffocarsi il movimento LGBT.