Un ritrovato Rupert Everett ha talmente interiorizzato, sfumato, vissuto Oscar Wilde nel dolente The Happy Prince di cui firma regia, interpretazione e sceneggiatura, che ne non ci stupirebbe trovarlo tra gli Academy Awards del 2019.
Testo di Antonio Malvezzi e Marco Albertini
(prima pubblicazione Pride maggio 2018)
Per chi è nato negli anni Settanta, Rupert Everett rappresenta l’epitome sexy della pseudospia di Another Country, dell’irresistibile amico canterino di Julia Roberts in Il matrimonio del mio migliore amico, il conteso dandy di An Ideal Husband. Eccolo a Torino al cinema Massimo in occasione del Lovers Film Festival all’anteprima nazionale del suo Il principe felice, la pellicola su Oscar Wilde di cui firma regia, sceneggiatura e interpretazione principale. Certo, un po’ più bolso appare, ma mai come adesso simile a quell’Oscar Wilde che per lui sembra davvero una seconda pelle.
A Everett interessa raccontare il disagio, lo smacco, l’umiliazione dell’ultima, difficile parte della sua vita, reduce da due anni di prigionia per omosessualità (evento storico per la giustisprudenza gay!). Wilde vaga senza un quattrino per Parigi dove canticchia in bettole gestite da una perfetta Béatrice Dalle – le location sono parigine ma non si direbbe – e ritrova lo storico amante Bosie ritratto come vanesio, arrivista e piuttosto rancoroso, e il buon Robert Ross (Edwin Thomas), primo e affettuoso amore del poeta. Fenomenale la grandissima Emily Watson nei panni della moglie tradita, lume di saggezza e compostezza sociale. C’è Napoli, non troppo folkloristica, credibile e d’antan.Rupert trasuda malinconia e nostalgica sofferenza nel film di una carriera.
La storia del Principe felice è una di quelle che la mamma ti raccontava quando eri piccolo. Cosa ti ha spinto ha raccontare Oscar Wilde attraverso questa sua favola?
Questa favola è una delle prime grandi memorie della mia vita, e anche se da piccolo non la capivo del tutto la trovavo toccante. Penso che Wilde stesso assomigli molto alla statua del principe felice, un tempo coperto di oro, rubini e diamanti e gradualmente distrutta. Questo ha fatto da filo rosso ed è quello di cui parla il film: è insito nell’uomo distruggere se stesso e quello che ama.
È un progetto che avevi in testa da molto tempo. Come mai circa otto anni per farlo diventare un film?
In questi giorni in generale è molto difficile reperire i fondi per fare un film. Non penso ci sia stato un problema sul personaggio, perché Oscar Wilde è così famoso, e neanche sull’omosessualità. Detto questo, tutta la mia vita ho lavorato nello show business che è un mondo fondamentalmente aggressivamente eterosessuale. Per me quindi lui è una grande ispirazione nei momenti difficili. Io andai a vivere a Londra a metà degli anni ’70, e la legge che in Gran Bretagna criminalizzava l’omosessualità era stata revocata da circa cinque anni soltanto. A quei tempi tutti noi avevamo vissuto nelle orme di Oscar Wilde, e ancora tutti noi dobbiamo qualcosa al suo scandalo. Per certi aspetti Wilde fu l’inizio del movimento di liberazione omosessuale nel mondo, anche se la parola omosessuale non esisteva al suo tempo. Questa storia risale a 150 anni fa ma tuttora qualcuno può ritrovarsi distrutto perché omosessuale, per esempio penso ai ragazzi che si suicidano a causa del bullismo, di conseguenza è importante ascoltare quello che ci sta dietro questo film.
Quali fonti hai usato per documentarti?
Ci sono molti libri e moltissime lettere. Praticamente si sa tutto quello che Wilde faceva ogni giorno a Parigi nel suo esilio. Il ritratto che ne emerge è quello di un vagabondo squattrinato, di una persona caduta in disgrazia dopo che fu una vera celebrità a tutto tondo, che ha perso tutto per colpa di quello che la società gli ha fatto. Quando divenne una star non si rese conto che il mondo ha delle regole, ed è un errore che spesso persone famose o ricche o di successo fanno. Wilde pagò duramente il prezzo per questo, con l’autodistruzione, ma il mio obiettivo è quello di trasmettere a tutte le persone l’amore e la passione che io nutro per lui.
Perché la scena del Vesuvio?
Giravamo a Napoli e il Vesuvio era lì, impossibile non usarlo e ai tempi di Wilde c’era già la funiculare. Sul Vesuvio ci siamo stati veramente, il vento era quello vero! Siamo dovuti andare via perché era così intenso da diventare pericoloso.
A tuo avviso, a distanza di 150 anni cosa che è cambiato nella percezione dell’omosessualità?
La percezione è cambiata in maniera radicale, dobbiamo essere orgogliosi che in America e Europa lesbiche, gay e transessuali abbiano più diritti e opportunità. Ma ci sono ancora attacchi pensanti, bisogna stare attenti. Siamo una comunità piccola, fragile: dobbiamo lottare contro i Trump, i Salvini e queste cose. A questo punto, che si fottano!
Farai altri film come regista, hai nuovi progetti in cantiere?
Lo spero, mi piacerebbe molto e il mio eventuale prossimo progetto come regista sarà in una direzione completamente diversa. Adesso sto girando la serie Il nome della Rosa nel ruolo di un inquisitore e mi piace molto.