Essere genitore fa parte della natura e dell’essere umano? Esiste una natura diversa per gli eterosessuali e gli omosessuali? Un nuovo film indipendente italiano affronta il tema in una commedia drammatica.
(prima pubblicazione Pride marzo 2017)
Torino, una classica serata in una discoteca gay. Paolo dopo aver discusso con un uomo a bordo pista entra nella darkroom e lì si imbatte in una ragazza, incinta al sesto mese di gravidanza che si sente male e sviene. Dopo averla accompagnata in ospedale e ospitata a casa per la notte, inizia con lei un’avventura on the road che dal Piemonte li condurrà fino in Calabria alla ricerca del padre della bambina che Mia porta in grembo.
Paolo è un uomo razionale e ferito perché sua madre lo abbandonò nella prima infanzia. È sereno nel proprio orientamento sessuale ma imprigionato in un lavoro di commesso di un negozio di mobili. Mia fa la corista in una band e non vuole appartenere a nessuno e a nessun posto, tanto meno il paese di provincia da cui è fuggita ma che le resta morbosamente attaccato all’anima.
Il secondo lungometraggio di Fabio Mollo, regista che esordì sul grande schermo nel 2013 con Il Sud è niente, usa situazioni al limite del paradosso (Mia è un personaggio decisamente insopportabile che probabilmente chiunque di noi avrebbe scaricato al primo Autogrill) per svolgere principalmente una profonda riflessione sulla genitorialità, tema alquanto di attualità per la comunità LGBT considerando sia lo stralcio della stepchild adoption dalla legge Cirinnà che la rilevanza sempre maggiore che le famiglie arcobaleno stanno assumendo nel mondo.
Voler diventare padre fa parte della natura umana o siamo stati condizionati che in quanto “contro natura” non abbiamo diritto nemmeno a pensarci? Una donna che non vuole avere figli è una “sciagurata” nel paese per eccellenza della mamma (se avete dei dubbi andate a riascoltare l’omonima hit di Beniamino Gigli del 1940)?
I due protagonisti, straordinariamente interpretati da Luca Marinelli e Isabella Ragonese, portano avanti anche un’altra questione, importante per i trentenni di qualsiasi generazione ma probabilmente ancora di più in questa epoca di profonde incertezze: come si può immaginare il futuro? Per rispondere a queste domande abbiamo sentito il regista.
Come nasce l’idea del tuo film, che non è del tutto un film a tema gay anche se il protagonista è dichiaratamente omosessuale?
Volevo fare un film dove l’omosessualità non fosse l’unica prerogativa di un personaggio. Mi andava di spingere di lato questa barriera e trovare un protagonista gay che non dovesse risolvere questo conflitto ma si dovesse confrontare con altro. Il film quindi parte da questo ragionamento per provare a raccontare un po’ la mia generazione e non l’intera comunità LGBT. Una generazione che a 30 anni si trova in quella delicata fase in cui si deve decidere conflittualmente se smettere di essere figli ed essere genitori.
Il nord e il sud Italia appaiono ognuno a modo proprio come una gabbia. La sicurezza che ti dà avere un lavoro e una facile vita sociale gay a Torino per Paolo, o la famiglia di Mia in Calabria che comunque ti accoglie a braccia aperte qualsiasi cosa tu abbia fatto. Queste certezze sono da mettere in discussione?
Sicuramente sì ed è quello che fa Paolo che ha rinunciato a vivere la vita a fondo perché aveva solo bisogno di certezze. Per questo si era condannato a rinunciare a una grossa parte di sé come quella di essere padre, avendo paura di quello che questa scelta avrebbe potuto generare, di come le persone che lo circondavano o la società l’avrebbero presa. Grazie a Mia, invece, impara a fregarsene dei punti fermi e di come bisogna far quadrare sempre le cose.
Se Mia è l’esatto opposto di una cosiddetta “frociarola”, Paolo spesso è rappresentato al limite di stereotipi gay oramai superati. Come mai hai operato queste scelte?
Io non mi accontento di quello che può essere convenzionale, a maggior ragione quando voglio raccontare una storia che per me è importante in prima persona ma anche rispetto alla mia generazione sia omosessuale che non. Per me era importante farlo portando in scena due personaggi estremi, forti in modi completamenti diversi. Paolo come un gay con un’omofobia interiorizzata anche se non ha paura dell’essere gay, cosa che ha superato, ma che dovesse affrontare l’omogenitorialità, argomento che nel 2017 sta rimpiazzando il “vecchio” coming out.
Il finale della pellicola, che non riveleremo, è estremamente interessante. I due personaggi principali lasciano dietro di loro una scia di distruzione ma hanno anche raggiunto il coraggio di accettarsi. L’egoismo salverà il mondo?
Domanda difficilissima, ti posso rispondere domani? Quello che può salvare il mondo è il coraggio: di essere se stessi, di affrontare gli altri, di andare fino in fondo in quello che credi. Quello che ho provato a mettere in questo film è che essere genitori è un’adozione. Sia che tu accolga un bambino che viene da un orfanotrofio sia che tu partorisca un figlio biologicamente, devi decidere in un certo senso di adottarlo o no. Per me la genitorialità ha questo senso.