Tanti omosessuali, anche in Italia, sono stati internati negli ospedali psichiatrici. Fino a oggi non esisteva nessuno studio su che cosa sia realmente accaduto nei nostri manicomi. L’iniziativa di Wikipink.
(prima pubblicazione Pride marzo 2018)
“Urlo non come una pazza, ma come tre pazze!”. Oggi Malgioglio, nella casa del Grande Fratello, si può permettere di esprimere pubblicamente tutta la sua divertita follia arcobaleno. Tacciono all’opposto coloro che pazzi lo sono stati considerati per davvero. Le loro storie agghiaccianti e mute, giacciono in cartelle cliniche impolverate abbandonate negli archivi degli ospedali psichiatrici.
È dal 1978, grazie alla legge Basaglia che gli ospedali psichiatrici non esistono più senza che nessuno si sia preoccupato di analizzare una tra le forme di discriminazione più violente, solo seconda all’omocidio: l’internamento manicomiale di gay e lesbiche.
Certo qualche piccola traccia ingiallita del fenomeno era già nota. In un raro libro tardo ottocentesco, per esempio, il medico Oscar Giacchi (1834-1907) sosteneva che se si fosse trovato a fare da giurato in un processo per atti omosessuali non avrebbe avuto il coraggio di mandare in galera il “povero imputato”, come prevedeva la legge: “molto meglio trattarlo in manicomio colla doccia fredda e coll’occupazioni igieniche e piacevoli, piuttostoché con la catena e i lavori forzati”.
Tre anni dopo un altro medico, Guglielmo Cantarano (1857-1913), documentava il caso d’una ragazza internata in manicomio dalla famiglia perché si vestiva da uomo e corteggiava chiassosamente le donne, ammettendo onestamente che la donna era sana: “non vi sono convulsioni, non errori di sensi e di giudizio, e la permanenza in manicomio è solo giustificata dall’inversione del suo sentimento sessuale”. Fino a qui però non era dato sapere quanti omosessuali italiani siano finiti nei manicomi e a quali trattamenti venissero sottoposti.
Poi, nel novembre scorso, l’Arcigay di Reggio Emilia ha riportato alla luce alcune cartelle cliniche poi mostrate nel corso di una visita guidata. Tra queste quella del trentottenne Girolamo X, ricoverato al manicomio di San Lazzaro a Reggio Emilia, dal 25 giugno al primo settembre 1912 proprio per “inversione sessuale” e quella di Ersilia, la prima in assoluto che documenta l’internamento di una persona omosessuale in Italia. Correva l’anno 1883 e la donna fu reclusa perché innamorata di Carolina, la responsabile della formazione nella fabbrica di fiori artificiali nella quale lavorava.
La ricomparsa di questi documenti ha generato un lavoro di condivisione, raccolta e sistematizzazione sull’enciclopedia LGBT online Wikipink che ha finalmente pubblicato la più ampia raccolta di documentazione sull’internamento degli omosessuali disponibile fino a oggi in Italia (www.wikipink.org/index.php/Manicomi_e_omosessualità).
Scorrendo tra le carte impolverate scopriamo che è internato a Mombello (Como), nel 1893 un certo M. L., nato nel 1851, notaio, che nella primavera aveva suscitato scandalo a Como: “non è amante del coito con la donna, mentre ha una tendenza irresistibile per il maschio giovanetto, che pare solo svegli in lui il senso erotico”.
Nel 1917 è ricoverato per “pederastia passiva” all’ospedale psichiatrico militare San Girolamo di Volterra un intagliatore di marmo e soldato nel corpo dei bersaglieri e, nel 1925, sempre a Mombello, è internato P.A., 33 anni. La documentazione clinica spiega: “all’età di 16 anni si innamorò pazzamente del maggiordomo della casa presso la quale prestava servizio e non tardò a manifestargli il suo affetto ed a concederglisi. L’idillio durò per circa un anno, ma poi, conosciuto [scoperto], egli venne cacciato dalla casa”.
Il materiale a disposizione ripercorre tutto l’Ottocento e il Novecento e arriva al 1978 con il caso di Carlo Di Marino, internato con un inganno in manicomio dalla famiglia perché omosessuale, e sottoposto a elettroshock per “fare di lui un maschione”. Una volta libero l’uomo farà causa ai genitori.
Questi frammenti, insieme ad altre decine di testimonianze raccolte da Wikipink, consentono una prima analisi storica generale del fenomeno. “I dati emersi finora”, spiega Giovanni Dall’Orto, “sembrano provvisoriamente suggerire che l’internamento delle persone omosessuali non sia stato sistematico bensì episodico, soggetto più all’umore e alle convinzioni personali dei parenti o dei medici curanti che a una sistematica politica d’internamento, come quella tentata invece in altre nazioni”.
In attesa di uno studio completo sull’argomento le cartelle cliniche costituiscono un atto d’accusa senza appello a chi, ancora oggi, accosta l’omosessualità alla malattia mentale. Purtroppo per Girlomo X., Ersilia, M.L. e decine di altri internati non ci saranno scuse o giustizia.