L’esperienza della transizione da una prospettiva inusuale. Con appassionata lucidità, una madre racconta in un libro il suo confrontarsi con la realtà gender non-conforming in un mondo che non prevede un manuale di istruzioni del caso.

 

C’è una doverosa premessa che devo fare. Apparentemente è personale ma influisce sulle riflessioni che questo diario sulla transizione di una figlia può suscitare in chiunque.

La premessa è che leggendo Senza rosa né celeste – Diario di una madre sulla transessualità della figlia di Mariella Fanfarillo (Villaggio Maori Edizioni) non ho potuto fare a meno di identificarmi con l’autrice per la comune esperienza di genitori.

Ho però dovuto fare i conti anche con Esther, la giovane figlia trans dell’autrice, che ha rievocato episodi, sensazioni e altre emozioni della mia infanzia e della mia adolescenza. Quelle che tendo a tenere in qualche angolo buio della coscienza perché sono capaci, a distanza di quarant’anni, di farmi ancora male. Le mamme come l’autrice, ai miei tempi, non esistevano.

No, non si tratta solo di “cuore di mamma”, questo importante libro non è un racconto di buoni sentimenti. In questo lavoro, in questa importante testimonianza, si respira il coraggio, la determinazione, lo studio accurato: non si è “buoni” solo in virtù dei propri sentimenti, noi possiamo essere persone migliori solo se siamo capaci di andare a fondo nella rielaborazione delle nostre esperienze e questo, Mariella Fanfarillo, ha saputo farlo.

Nel diario Mariella ripercorre l’esperienza del suo quotidiano, a partire dalle 15.35 di un piovoso pomeriggio di dicembre del 1999 quando nasce Francesco e, con estrema sincerità, tutte le emozioni positive o negative che ne accompagneranno la crescita e il suo vivere nel mondo.

Nel primo capitolo scrive: “Sarei, però, ipocrita e presuntuosa se non parlassi dei miei sentimenti e non ammettessi il mio straziante dolore di mamma che ha partorito un figlio maschio di fronte a quei lenti ma inesorabili cambiamenti che, per quanto ne rifiutas­si l’idea, mi hanno messa davanti all’esistenza ineludibile di una figlia femmina”. Esther, infatti, non ha mai avuti dubbi sulla propria identità di genere, per cui “Sono arrivata a comprendere che Francesco esiste­va nei miei sogni e nelle mie aspettative, ma non era reale.”

Si avverte allora nello svolgersi del racconto la cura di un approfondimento intelligente, la padronanza di concetti non immediati per chi si avvicina a questa esperienza, come quello di transfobia interiorizzata, o come la conoscenza dei protocolli dei percorsi di transizione e delle procedure legali che si devono necessariamente affrontare.

Si tratta di una metabolizzazione attenta e rispettosa della condizione transgender che non è scontata quando l’esperienza ci riguarda da vicino entrando nella nostra casa, e toccando i figli che abbiamo messo al mondo. Questo l’autrice lo sa bene, e non edulcora ipocritamente una storia vera solo in virtù del lieto fine che pure c’è stato, perché il 25 luglio 2017 il Tribunale di Frosinone concesse a Esther, benché in età minorile, la rettifica dei dati anagrafici senza previo intervento di riattribuzione chirurgica del sesso. Era solo la seconda volta che accadeva in Italia.

C’è un lutto da elaborare nell’esperienza di un figlio che affronta una transizione, un lutto che comporta un dolore, ma il cui senso può essere ribaltato con il coraggio, con la determinazione, con risposte a tante domande e che, a differenza di altri lutti, presenta il vantaggio di non lasciar alcun morto sul campo.

Una madre troverebbe molto più comodo assecondare tutto quello che le viene “buttato addosso” dal mondo circostante: tuo figlio è malato, un bambino non dovrebbe giocare con le bambole, un bambino non dovrebbe vestirsi da femmina!

Ma se la risposta agli interrogativi che queste pressioni alimentano è una domanda retorica come “Mio figlio è un problema, o è la società che rappresenta un problema per mio figlio?”, si trova il modo di far emergere il coraggio.

Perché questa è la storia di una mamma coraggiosa, coraggiosa anche per aver deciso di farla conoscere, che ha elaborato dolori e condiviso gioie per le piccole e grandi conquiste di sua figlia, diventandone la migliore alleata. Per esempio vedendo a qualche tavolo di distanza in un ristorante adulti e bambini mentre ridono della piccola Esther dalle sembianze di Francesco che sta giocando con le bambole, si alza e non si trattiene dal dire bruscamente che questi comportamenti con i propri figli rappresentano il germe del bullismo. No, non sta zitta Mariella.

Questo coraggio paga, è potentissimo, serve. Delle persone trans si ridacchia da lontano, sperando di non essere visti, e quando si viene messi di fronte alla pochezza dei propri atteggiamenti il risolino si trasforma in un silenzio desolante che obbliga a riflettere.

L’esposizione della storia è puntuale e densa ma scorre veloce, districandosi tra l’intimità familiare e gli ostacoli della collettività, delle istituzioni, della legge e dei suoi burocratici protocolli, mettendo a nudo l’inadeguatezza della scuola, evidenziando le differenze tra le ostilità della provincia italiana e la diversa e accogliente posizione di una Germania in cui Mariella ed Esther vivono per alcuni anni.

Verso la fine poi si ritrova il bandolo di una matassa che inizialmente sgomentava: chi sono io? Sono la madre? Sono la figlia? “Un giorno, all’improvviso, mi sono trovata a domandarmi che cosa avrei desiderato io se mi fossi trovata a vivere la sua esperienza” annota l’autrice, e con questo scioglie il nodo.

Questa madre, che ha smosso mari e monti, ci mette di fronte alla semplicità di una condizione che viene complicata principalmente dalla cultura patriarcale e maschilista che continuiamo a tramandarci, e lo fa con l’esempio di una bambina, cuginetta di Esther, che un po’ disorientata le chiede se deve usare il nome Francesco oppure Esther.

“Un respiro profondo, un momento per riflettere e mi sono fatta coraggio. Sua madre non era con noi, dovevo trovare le parole giuste per spiegarle che sua cugina è sempre stata donna, evitando di turbarla. Ho deciso di farlo nella maniera più naturale possibile, senza girarci troppo attorno.” (…) Quando mio padre è venuto a prenderla ci siamo salutare: ‘Ciao zia, ci vediamo presto. Salutami Esther. Zia, hai visto che non ho sbagliato?’”

Lo capisce anche una bambina, come stanno le cose, eppure abbiamo ancora bisogno di libri come questo per insegnarlo, per cui abbiamo posto alcune domande all’autrice.

Noi ci siamo conosciute per ragioni di attivismo: il tuo ruolo di “mamma di tutte le giovani persone trans” ti ha spinta a creare relazioni con volontari/e sparsi/e per tutto il territorio nazionale. Non hai mai pensato che i tempi siano maturi per un’esperienza associativa dedicata ai genitori di giovani transgender?

Durante il percorso di transizione Il supporto della famiglia è fondamentale. Troppo spesso mi è capitato di incontrare ragazz@ sol@, spaventat@, in cerca di un sostegno emotivo che non avevano trovato nell’ambiente familiare, che dovrebbe essere, invece, il luogo deputato a proteggerl@.

Sto considerando la possibilità di coinvolgere quanti più genitori possibili in un progetto associativo nel quale parlare, confrontarsi e attivarsi per difendere i diritti de@ nostr@ figli@. Fare informazione e formare ragazz@ e genitor@ credo che sia la base per consentire un sano percorso.

La tua storia e quella di tua figlia hanno richiamato molta attenzione da parte dei media. Spesso dietro il sano intento di fare informazione ci sono anche implicazioni legate a richiamare il pubblico puntando sulla morbosità. Hai colto quest’aspetto? E se sì, come lo hai fronteggiato?

Il mondo trans viene spesso guardato con una grande curiosità morbosa e con atteggiamenti che rasentano il voyeurismo. La stampa, a volte, ne è l’esempio più eclatante, considerata la cassa di risonanza di cui gode. Con questo non voglio generalizzare, perché abbiamo incontrato giornalist@ molto interssat@ alla tematica T e che hanno realizzato ottimi articoli. Purtroppo, però, recentemente una giornalista, che mi aveva contattata per avere informazioni sulla varianza di genere e senza specificare che da quella chiacchierata sarebbe nato un articolo, ha violato la privacy di Esther, divulgando dati sensibili che non era stata autorizzata a pubblicare. Abbiamo dato mandato al nostro avvocato per chiedere la rimozione dall’articolo dal web e l’abbiamo ottenuta. Ora stiamo considerando se e come procedere ulteriormente.

Nel tuo libro traspare un senso di solitudine dei tuoi primi anni di vita con tua figlia. Che cosa consiglieresti ai genitori di figli o figlie che mostrano precocemente segni d’insofferenza rispetto al loro essere maschi o femmine?

Ai genitori che si trovino ad affrontare una situazione di varianza di genere mi sento di dire soltanto di assecondare e non reprimere il/la propri@ figl@. Quest@ bambin@ hanno necessità di sentirsi accolt@ e compres@, mai giudicat@. L’errore più grande che si possa commettere da genitori è quello di pensare alle critiche e ai giudizi della società, anteponendoli alla serenità del/la propri@ figli@.

Tua figlia ha iniziato il percorso medico con assunzione di una terapia ormonale dopo i 16 anni, età in cui in Italia, a determinate condizioni, è possibile iniziarla. Che cosa ne pensi dei farmaci bloccanti della pubertà che in altri paesi si stanno diffondendo?

Tutto ciò che racconto nel mio libro e nei vari incontri nei quali sono ospite, è frutto di un’esperienza di vita vissuta sulla mia pelle di mamma. Esther non ha mai fatto richiesta di iniziare una terapia con la triptorelina, per questo motivo non mi sento di prendere una posizione a favore o contro l’uso dei bloccanti ipotalamici. Ogni situazione, inoltre, rispecchia un percorso di vita unico, differente da tutti gli altri, per cui generalizzare sarebbe scorretto.