Lesbica dichiarata e candidata agli OUT d’or 2019, i premi francesi della visibilità LGBT, nella categoria Coup d’éclat artistique per il suo primo album, Léonie Pernet impregna la sua splendida musica di messaggi poetici e politici. L’abbiamo incontrata in occasione del suo primo concerto italiano.
Compositrice, produttrice e polistrumentista (ha aperto le date francesi del tour di Anna Calvi che l’ha definita “una degli incredibili artisti attivisti della scena LGBTQ francese”), la musicista Léonie Pernet è uno dei nomi più interessanti e promettenti della scena d’oltralpe contemporanea.
A fine settembre 2018 per l’etichetta InFiné è uscito Crave, il suo primo disco: una ben riuscita commistione di generi diversi che passano, in maniera molto coerente e disinvolta, dall’elettronica, alla world music, al pop-rock, per poi tornare all’electro-pop. I testi parlano di condivisione sociale, immigrazione e accoglienza evocando l’alienazione e lo smarrimento ma suggerendo in filigrana anche possibilità di speranza.
In occasione della settima edizione “Intersezioni” del Festival Lesbiche Fuorisalone, uno degli eventi culturali lesbici milanesi più attesi dell’anno, si è esibita il 12 aprile alla palazzina Liberty accompagnata dalla musicista Marie Milon.
L’elettronica crea una perfetta mescolanza tra suoni classici e sonorità ipnotiche, facendoci entrare da subito nel suo viaggio musicale: commovente, emozionante e, comunque, tranquillizzante, come qualcosa di conosciuto, assemblato però in maniera nuova, con un tocco di malinconia. La incontro dopo il concerto.
Presentati al pubblico italiano che non ti conosce, prova a dare un qualche piccolo dettaglio su di te e sulla tua musica
È difficile, io mi definisco una strumentista perché in quest’album, che è il mio primo disco (il primo EP Two Of Us è uscito nel 2014, N.d.R.), suono la batteria, il piano, le percussioni, la chitarra e canto. Certo non ho suonato solo io, ma ci sono state molte collaborazioni esterne e influenze musicali di diverso tipo, perché mi piace non essere chiusa e definita in un unico genere.
Ho letto diverse tue interviste ma non ho mai trovato quale sia la tua origine e dove vivi.
Non rispondo spesso a questo genere di domande sulla mia vita privata, ma stasera ho deciso di farlo: vivo a Parigi, mia madre è francese, mentre mio padre è originario del Niger, è un Tuareg del Niger. Mi sono interessata alla questione razziale solo da qualche anno e, anche se probabilmente è troppo tardi, è un tema che mi ha profondamente scosso… In effetti quello che faccio è di mischiare diversi generi attraverso la mia musica. Anche nei video puoi trovare questo mélange, e nell’album Crave ho inserito un brano in arabo (Auaatie, con la partecipazione di Hanaa Ouassim) e uno che parla di Africa, African Melancholia, nel cui video, diretto da Adrien Landre, si mette in scena la corsa di Mohammed Mostafa, un giovane attore sudanese che è fuggito in Francia dal Darfur e vive sotto la minaccia di un’imminente espulsione.
Parliamo dell’album Crave. Perchè la scelta di questo titolo (desiderare ardentemente) e c’è un filo rosso tematico che collega tutti i brani?
Gli anni che hanno preceduto questo album sono stati un periodo legato a forti dipendenze: amore, eccessi e passioni folli. Ti dico solo che domenica sono due anni che ho smesso di bere. Marguerite Duras una volta ha scritto che “beviamo perchè Dio non esiste”, e da questa frase credo che abbia avuto origine tutto l’album. Crave racconta di forti passioni e di quello che manca in tutte le sue forme, come una sorta di “mancanza originale”. Per me c’è un collegamento tra le passioni forti e la mancanza, come se parlassi per omissione.
Ho letto che hai impiegato anni a scrivere questo disco, alla fine è uscito come te l’aspettavi o ha preso una piega imprevista?
Quello che ne è uscito è esattamente quello che mi aspettavo, perché indipendentemente da ogni singolo brano, io ho sempre avuto una visione globale del disco.
Crave è molto vario, eclettico e con influenze diverse. Ricordi che musica ascoltavi mentre lo hai scritto e c’è qualche artista/musicista che ha avuto un ascendente particolare su di te?
Quello che mi ha influenzato non è stato quello che ascoltavo mentre scrivevo il disco, ma in realtà è stato quello che ascoltavo quando ero più giovane: musica sacra, canti gregoriani, musica arabo-orientale, elettronica e, tanto per fare qualche nome, diversi album dei Radiohead; tutto ciò che collega la musica che ho ascoltato, di ogni genere, e che ha avuto una profonda influenza su di me, è spesso nella profondità dei testi, anche nei brani più pop e leggeri.
Parlando d’identità musicale come definiresti la tua musica?
Onestamente non lo so, spesso sono solo i giornalisti a pormi questa domanda e mi fa sempre sorridere il tentativo di voler classificare e dare una definizione a tutto…
…in effetti tu avevi detto prima che non volevi classificarti…
…perché non voglio essere racchiusa in una categoria, la musica non deve necessariamente appartenere a una tipologia ben precisa o essere chiusa in una gabbia. È come se mi chiedessero di definirmi in un genere per esempio sessuale e io non ho bisogno di questa etichetta per vivere la mia vita (ridiamo insieme perché le dico che mi aspettavo questa risposta).
Mi hanno detto che sei un’attivista LGBT, che significato ha per te?
All’inizio ero prevalentemente un’attivista LGBT, ma poi mi sono accorta (ed è quello che emerge anche dal mio progetto musicale) che le problematiche LGBT non possono essere disgiunte dal razzismo delle istituzioni verso i rifugiati, e che i problemi del post-colonialismo sono un problema politico e non un problema dei soli rifugiati. Quindi non mi ritengo più solo un’attivista LGBT. Per esempio, nel video di Auaatie, un brano che parla di omofobia e islamofobia, cantato insieme a Hanaa Ouassim, si ripercorre la storia di Léonie Pernet e Seyyal, una donna di Darfour, che è fuggita dal suo paese con la famiglia per stabilirsi in America. Le due donne ora sono libere di vivere come vogliono, libere di pregare il Dio che vogliono, libere di amarsi come vogliono, in una società che non sempre permette loro di essere ciò che sono veramente.