Oltre a occuparsi della trasmissione del sapere, un insegnante dovrebbe conoscere la sua classe, capire a chi sta parlando. E per quanto riguarda i temi relativi alla sessualità questo non sempre accade, visto che anche a scuola vale in genere la regola della “presunzione di eterosessualità”. Gli insegnanti danno per scontato che i loro studenti siano eterosessuali e vivano in famiglie eterosessuali. Le persone omosessuali esisteranno pure “là fuori”, ma non sono certamente nella loro classe. Eppure in Italia ci sono centomila famiglie con almeno un genitore omosessuale e c’è anche la possibilità che uno studente su venti, o su dieci secondo stime più generose, sia omosessuale. Come convincere i prof che si tratta di una realtà sempre più visibile e soprattutto ineludibile?
Ci sono molte cose che a scuola vengono spesso ignorate riguardo all’omosessualità. Per esempio che non è una malattia e quindi non c’è un bel niente da curare; o che non è un vizio e nemmeno un modello diseducativo da nascondere: è un orientamento sessuale. Sono concetti semplici che possono apparirci banali nella loro ovvietà, eppure quando si apre l’argomento con i presidi, gli insegnanti e gli operatori per parlarne nelle loro scuole ci si accorge che le resistenze derivano in gran parte da argomentazioni fallaci, inquinate dai pregiudizi. Il problema è che gli insegnanti, anche in buona fede, contribuiscono con il loro silenzio e la loro ignoranza al malessere di cui sono vittime gli studenti.
Sul sito www.bullismoomofobico.it (un progetto dell’Università Federico II di Napoli) Giuseppe scrive: “Ricordo gli insulti, i lanci di pietre, gli sputi. E quell’appuntamento quotidiano con un gruppetto di ragazzi, miei coetanei, all’uscita di scuola. Mi aspettavano per iniziare i cori di insulti. Bastava un solo sguardo per autorizzarli a pestarmi. Mi preparavo già prima dell’uscita, mi ero organizzato: lasciavo la borsa a qualche compagno e al suonare della campanella correvo fino a restare senza fiato per non farmi prendere. La situazione migliorò quando divennero evidenti le aggressioni anche se rimanevano sempre ‘cose da ragazzi’ agli occhi di tutti. I bagni erano per me proibiti, ovvio, me la tenevo fino a casa. Ricordo la tensione, la paura, l’ansia, l’angoscia quando suonava la campanella. Non ne ho parlato a scuola con gli insegnanti né a casa perché mia madre utilizzava aggettivi come quelli che mi rivolgevano all’uscita di scuola e alzava le mani per reprimere magari qualche atteggiamento effeminato come una semplice mano posata sul fianco”. Giuseppe è uno di quei ragazzi non deboli, ma indeboliti da quotidiani atti di violenza perpetrati dai loro coetanei con il tacito avallo degli insegnanti e spesso anche delle famiglie. Non poter far nulla se non chiudersi in se stessi, fingere di essere etero, abbandonare la scuola, sono esperienze che rendono deboli, quando non portano addirittura all’autolesionismo o al suicidio. Se le precedenti generazioni di studenti glbt sono state private del diritto a crescere serenamente, oggi sembra però che questo sia un traguardo raggiungibile per le nuove. O almeno ci sono persone che cercano di intavolare un dibattito serio sull’argomento e di coinvolgere direttamente gli insegnanti affinché ciò sia possibile.
“Capire l’omosessualità, e farlo a scuola, dove le generazioni si incontrano e si scambiano modelli, conoscenze e sogni, è possibile, anche attraverso una serie di attività di sensibilizzazione, integrazione ed educazione alla diversità e al rispetto”. A fornire strumenti e schede operative innanzitutto agli insegnanti per comprendere il vissuto e i bisogni degli studenti sono due psicoterapeute, Antonella Montano e Elda Andriola, che hanno appena pubblicato Parlare di omosessualità a scuola. Riflessioni e attività per la scuola secondaria (Erickson, 2011, pp. 130, 17,50 €).
Le autrici, chiarito una volta per tutte che “lo stress psicologico e il malessere esperiti da gay e lesbiche non derivano dal fatto di essere omosessuali, bensì da una reazione sociale stigmatizzante” (anche uno “scherzo benevolo” o un “insulto giocoso”), sottolineano come nessun programma scolastico faccia anche solo accenno all’esperienza di persone omosessuali che abbiano contribuito alla storia dell’uomo – nella letteratura, nell’arte, nella filosofia e nelle scienze – e che smentisca l’errata convinzione, già radicata negli adolescenti, di essere persone inferiori, perdenti, in quanto omosessuali.
Montano e Andriola spiegano che “anche chi ha le competenze o il mandato, come la scuola, di aiutare i giovani nella costruzione della loro identità, quando i giovani in questione sono gay e lesbiche, deve fare i conti con la società e chiedersi: ‘che livello di accettazione c’è del mondo omosessuale in questa istituzione?’, oppure: ‘quanto i genitori sono disposti ad accettare questo intervento?’. Quando la risposta a queste domande è negativa, è lì che troviamo il nemico più grande dell’adolescente omosessuale: il bullismo omofobico”. Un bullismo che gli studenti faticano a denunciare a causa del rischio di ricevere esplicite domande sulla propria sessualità. “Il giovane, quindi, una volta denunciati i suoi persecutori, immagina di dover rispondere del proprio comportamento, di dover dare dei chiarimenti come se fosse lui stesso a doversi difendere, passando da parte lesa a colpevole”.
Un altro testo prezioso che ci aiuta a comprendere le caratteristiche di questo tipo di violenza subita dagli studenti omosessuali è Il bullismo omofobico. Manuale teorico-pratico per insegnanti e operatori, scritto da Gabriele Prati, Luca Pietrantoni, Elena Buccoliero e Marco Maggi (FrancoAngeli, 2010, pp. 302, € 26,00). Oltre a uno studio rigoroso sulla contestualizzazione teorica del fenomeno, questo manuale espone alcuni interventi realmente svolti nella scuola primaria e secondaria. Giochi pedagogici, questionari, schede di ricerca e di valutazione, oltre a un cd che raccoglie il manuale operativo per la conduzione delle attività e un video didattico sull’omofobia, rendono quest’opera indispensabile per i docenti e per coloro che volessero approfondire l’argomento.Il bullismo omofobico riguarda infatti tutti. Perché – spiegano gli autori – “è prima di tutto un problema culturale molto ampio. Riguarda ragazzi e adulti, prepotenti e vittime e astanti, coinvolti nella stessa dinamica di sopraffazione ai danni del più debole. Contrastare queste forme di esclusione e di discriminazione è particolarmente difficile per gli adulti proprio perché richiede di affrontare argomenti ancora inconsueti nella scuola e legati strettamente alla concezione personale dell’amore, della diversità, della sessualità”.
Ma su questi temi non ci si può permettere il lusso dell’improvvisazione. Quando un insegnante parla di omosessualità, gli studenti spesso diventano curiosi a proposito della sua sessualità e può crearsi un imbarazzo nella comunicazione con la classe. Come risolvere il problema? Il manuale invita ad analizzare le aspettative implicite ed esplicite (es., “Il fatto che sia gay potrebbe influenzare la vostra opinione su di me o su quello che stiamo discutendo? Se sì, come mai?”). A questo punto l’insegnante può scegliere se svelarsi come eterosessuale, come omosessuale o declinare la risposta. Se è eterosessuale, mostrarsi interessato pubblicamente alla questione omosessuale e impegnato a promuovere il rispetto fornisce un modello positivo per gli studenti. E se il prof è gay? Dichiarandolo non deve pensare di avere violato qualche confine tra vita privata e pubblica. “Dire di essere gay non significa parlare dei ‘propri affari’. Quando gli studenti vengono a sapere l’orientamento omosessuale del loro insegnante hanno una conoscenza ancora generica della persona come quando gli studenti conoscono o danno per scontata l’eterosessualità degli altri insegnanti”. In effetti quando una persona ci dice che è omosessuale, non sappiamo ancora nulla di lei. Se infine l’insegnante lascia in sospeso l’esplicitazione del suo orientamento sessuale, non c’è da stupirsi delle chiacchiere da parte degli studenti. Questo stato di incertezza da una parte può essere positivo se diventa un’opportunità negli studenti stessi per discutere le loro implicite aspettative, i preconcetti e le inferenze che hanno messo in atto. “Un insegnante eterosessuale – propongono gli autori – potrebbe utilizzare questa strategia del dubbio esplicitando di essere eterosessuale in un secondo tempo in modo da analizzare i pensieri e le aspettative degli studenti. Dall’altra parte, se un insegnante è omosessuale, gli studenti potrebbero interpretare questo silenzio come espressione della sua vergogna”. I docenti che hanno tutta l’intenzione di trasmettere il valore del rispetto ma nello stesso tempo “si nascondono” potrebbero compromettere la riuscita del loro stesso lavoro suscitando confusione invece che fare chiarezza. Che siamo omo o etero non importa. Insegnanti, psicologi, educatori possono “costruire dei loro percorsi educativi indipendentemente dal proprio orientamento o dalle proprie posizioni, purché accomunati da una scelta etica-deontologica che miri a contrastare ogni forma di discriminazione, di violenza sia essa verbale, fisica o psicologica, e di violazione dei diritti umani”.
A settembre la scuola ricomincia. Possiamo potenziare esperienze presenti in alcuni istituti già da anni, attivare corsi di formazione per insegnanti e operatori affinché le nuove generazioni di gay e lesbiche non abbiano più a soffrire per paure infondate e colpe inesistenti. Per ora è illusorio pensare che queste iniziative possano partire spontaneamente dal ministero della pubblica istruzione e dalle istituzioni più in generale.