Un mio amico dice che ormai l’unica chance che ci resta è lo sciopero fiscale. Un altro, stimolato sull’argomento, ipotizza perfino un blocco dello shopping a oltranza per mettere definitivamente in ginocchio l’economia italiana. Un altro ancora guarda fisso l’orizzonte e annuncia con tono grave che la traversata del deserto ci attende. Alla domanda “e adesso cosa facciamo?” nessuno sa offrire in sostanza una risposta anche solo vagamente ottimista. Abbiamo marciato e strillato, portato addirittura Lady Gaga a Roma, e assediato il parlamento per giorni per spronarlo a dare almeno un piccolo segnale di svolta con la norma sull’omofobia. Ma non c’è stato niente da fare. Il saldo finale di quest’altro anno trascorso a crederci e a provarci è sempre zero.
Quello che brucia di più è quanto poco sul serio ci prendano interlocutori e avversari. Il nuovo stop alla leggina sull’omofobia, a fine luglio alla camera, è un esempio da manuale al riguardo. Una piccola misura umanitaria, una goccia nel mare della domanda di uguaglianza, alla quale l’augusto parlamento che ci ritroviamo ha risposto con una pernacchia. Non è altro che questo, infatti, il rifiuto di discutere e votare il testo nel merito, bocciandolo come incostituzionale con argomenti pretestuosi. Uno sberleffo sguaiato, che oltre a confermare l’infimo livello della classe politica ci spiega ancora una volta che siamo meno di niente, non contiamo niente nelle liturgie del potere e quindi non abbiamo titolo a essere trattati con un minimo di rispetto formale. Ci possono prendere in giro come gli pare. E offendere pure (il più delle volte anche “in senso bonario”, ha detto nonno Bossi), tanto la legge sull’omofobia non è passata e non passerà mai. Basta vedere poi cosa si sono permessi di dire i papaboys e le papigirls che affollano le nostre rappresentanze istituzionali a proposito del matrimonio di Paola Concia in Germania. Anziché discutere dell’evidente carenza giuridica che obbliga le coppie gay e lesbiche che vogliono e possono farlo ad andare a sposarsi all’estero, hanno sommerso le due neospose di contumelie, declassando il loro gesto e il loro impegno reciproco a pura propaganda pubblicitaria. In assenza di ragioni la denigrazione e l’insulto vanno ancora benissimo. Tanto la legge sull’omofobia non è passata.
L’autunno nel quale stiamo entrando a vele non proprio spiegate porta ora in primo piano altre priorità. La crisi economica minaccia la sicurezza di tutti, chi più chi meno. Un mostro molto più grande di noi ci prospetta non più almeno la speranza di progredire ma il fondato timore di retrocedere. Su quali effetti possa avere un’insicurezza come quella che stiamo vivendo sugli standard della vita civile è meglio non pensare agli esempi che ci offre il passato, ma rischi indubbiamente ce ne sono.
Fortuna che un manipolo di benintenzionati sindaci di centrosinistra ci vuole bene e per dimostrarcelo ha scongelato nel 2011 il registro comunale delle unioni civili. Nato come strumento di pressione simbolica per incoraggiare il parlamento nazionale a legiferare sulle coppie di fatto, alimenta ormai i dibattiti politici locali da due decadi senza che il parlamento abbia fatto una piega. Non si può dire che si sia rivelato utile allo scopo. Perciò, se pure potrebbe essere carino che ogni città avesse il proprio simbolico registro delle unioni civili, al quale del resto quasi nessuno si iscrive, prendiamo la cosa per quello che è: un semplice salamelecco che fa chic e non impegna. Meglio che un calcio nel didietro, certamente, ma sarebbe ora che chi vuole definirsi “illuminato” si prendesse qualche responsabilità più concreta. Diversamente, il teatrino dei registri comunali è solo un’altra pennellata a un quadro generale depressivo che ci porta spesso a domandarci perché proprio a noi è capitata la sfiga di nascere in Italia.
Tralasciamo per carità di patria lo stato in cui versa il movimento glbtqi dopo le traversie più recenti e chiediamoci piuttosto come prepararci a svernare nel più proficuo dei modi. Ci si può sdraiare su un divano stile impero per darsi un contegno in attesa della fine oppure tentare qualcosa di diverso. Personalmente penso che la disobbedienza civile possa diventare oggi una scelta sensata. I nostri diritti esistono ma sono negati e calpestati, senza possibilità alcuna di compromesso. Disobbedire a questo punto è non solo lecito ma anche doveroso.
Digiuni di massa, scioperi, boicottaggi, flash mob, processioni… L’importante è che l’intenzione sia seria e sorretta dalla necessaria dose di indignazione. Delle forme si può discutere, perché è evidente che la disobbedienza organizzata paga di più di quella spontanea. La forza della lotta nonviolenta, del resto, sta tornando a conquistare terreno nel mondo. In India è comparso addirittura un nuovo Gandhi, vestito e atteggiato esattamente uguale, che digiuna insieme a migliaia di sostenitori contro la corruzione dei politici e riesce effettivamente a farsi prendere sul serio.
Il problema è essere in tanti. Come i danesi di cui parla Hannah Arendt nel libro La banalità del male “per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza passiva, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori”. Durante la seconda guerra mondiale, racconta la Arendt, l’intero popolo danese si ribellò ai nazisti che volevano deportare gli ebrei residenti nel paese per inviarli nei campi di sterminio. E riuscì a salvarli quasi tutti senza spargere sangue, con vari metodi creativi di resistenza suggeriti dalla necessità impellente. Provarci vale sempre la pena, specie se non si ha niente da perdere.