Il problema per una icona pop di portata mondiale è che rischia facilmente di finire identificata con il proprio stereotipo. E nel caso di Keith Haring, il più pop degli artisti pop, la cui opera si è diffusa in qualunque angolo del pianeta, su tazze, magliette, spille e ogni genere di gadget, il rischio è molto elevato. Ma l’opera di Haring va ben oltre i gadget.
E quest’anno, in cui ricorre il 25° anniversario della sua morte avvenuta il 16 febbraio 1990 a soli 31 anni, è una buona occasione per riscoprire questo ragazzotto cresciuto in un piccolo borgo di 5000 abitanti 100 km a nord di Filadelfia e diventato uno dei nomi più noti dell’arte contemporanea nel mondo intero.
Nel seguire questa trasformazione (vedi Pride n. 135), è importante che la luce della fama non oscuri gli elementi più umani dell’opera di Haring. Il fatto che fosse apertamente gay, ad esempio, rientra nel ruolo di icona planetaria. Sarebbe però sbagliato dare per scontata la sua visibilità: il suo grande amico e maestro Andy Warhol, ad esempio, era molto meno aperto sulla sua vita sessuale.
Lo stesso Keith ammette in una straordinaria e intimissima intervista pubblicata su Rolling Stone pochi mesi prima di morire di non aver mai parlato apertamente della propria omosessualità con la famiglia: “Non gliel’ho mai nascosto ma non me lo hanno mai chiesto. Quando vivevo con Juan (uno dei suoi primi fidanzati, NdA) vennero a farci visita… e c’era un solo letto. E Juan veniva con me a Natale per le riunioni di famiglia. Mio padre ha dieci tra fratelli e sorelle: è una famiglia tutta del corpo dei marine. Tutti i parenti di mio padre sono marine, e so che sarei potuto esserlo anch’io… Avrei potuto fare tutto quello, ma è stato persino più stupefacente avere il loro rispetto senza essere un marine ed essendo gay”. La militanza gay, però, Haring l’ha portata senz’altro nella sua arte.
Lo racconta bene, per quanto possa un evento generalista, la mostra “Political Line” che ripercorre l’impegno sociale di Haring e che, dopo essere stata a Parigi nel 2013 e a San Francisco sino allo scorso 16 febbraio, tornerà in Europa, precisamente alla Kunsthalle di Monaco, da maggio ad agosto. Qui un’ampia sezione è dedicata alla libertà sessuale di cui Haring ha sempre rivendicato l’importanza. Fino ad affermare che “è sempre stato impossibile separare vita ed arte per me e la vita era inevitabilmente dominata dalla sessualità, è probabilmente la forza propulsiva dietro ogni mio lavoro”.
Tra le opere più esplicite presenti alla mostra, i Manhattan Penis Drawings for Ken Hicks, una serie di disegni di cazzi in diverse rappresentazioni, o la grande tavola rosa di forma fallica intitolata The Great White Way.
Roba da educande se paragonate con l’esaltante promiscuità del murales realizzato nel 1989 all’interno del Gay, Lesbian, Bisexual & Transgender Community Center, che si trova nel West Village a New York: un modo per celebrare, negli anni in cui l’aids stava decimando la comunità che a quella sede faceva riferimento, come sia importante per i maschi gay poter vivere gioiosamente la propria sessualità. Se non è rivoluzionario questo…
E a proposito dell’ aids, che uccise anche Keith Haring come decine dei suoi amici e colleghi, è interessante notare che anche in questo caso la visibilità, alla quale non si è tuttavia sottratto, è conquistata da Haring non senza fatica.
L’artista, infatti, amava lavorare fianco a fianco con i bambini: come quando coinvolse 900 giovanissimi collaboratori per realizzare l’enorme dipinto alto 30 metri in occasione del centenario della Statua della Libertà.
E nella già citata intervista a Rolling Stone egli ammette di aver avuto paura di non essere più invitato a lavorare con i bambini se si fosse saputo che aveva l’aids: “So che non mi inviteranno. Ma penso che non sarebbe onesto se ci andassi senza che lo sappiano e se lo scoprissero dopo: ‘È stato qui e aveva l’aids’. Penso che quello che può accadere se le persone lo sanno sia molto più interessante rispetto ad andare avanti come se nulla fosse e lasciarglielo scoprire dopo”. Parole che spiegano come sia importante parlare anche se può essere difficile. Lo stesso messaggio che sembrano lanciare gli omini che si tappano occhi orecchie e bocca nella grande tavola triangolare rosa intitolata “Silence = Death”, come lo slogan della associazione anti-aids Act-Up a cui Haring aderì.