Alla gioventù, si sa, si perdonano tante cose, compresa l’illusione di essere più della premessa di quanto viene dopo. Qualcosa mi dice che il pupillo del momento dei critici cinematografici, Xavier Dolan, non sarebbe arrivato al terzo film se avesse iniziato a girare a 40 anni anziché a 17.
Gli storici ci spiegano che la nostra cultura ha paura della morte e l’ha rimossa, né più né meno di quanto ha fatto a lungo con il sesso. Di conseguenza, da saggio depositario di un sapere e di valori da tramandare, l’anziano è divenuto un imbarazzante memento mori sovvenzionato dall’inps, utile solo a raccontare sempre le stesse storie ai nipoti e capace di attrarre giusto i feticisti della tombola.
Eppure, a pensarci bene, la cultura omosessuale ha guardato fino ad anni recenti alla pederastia greca come a un modello nobile, e in questo modello la divergenza d’età era pur sempre prescritta come un obbligo. Invece, ancora qualche settimana fa, l’ironia si è sprecata quando Stephen Fry, 57 anni e non proprio un sex symbol (da noi è noto soprattutto per aver interpretato Wilde, tre lustri fa), ha annunciato di voler sposare un piacente commediografo di trent’anni più giovane.
Si direbbe che l’edonismo godurioso e scapestrato, incapace di riflettere su se stesso, di cui tutti abbiamo fatto esperienza nella comunità gay, abbia avuto la meglio anche sulla millenaria tradizione greca. Fatto sta che il cinema gay degli ultimi trent’anni ha rispecchiato fedelmente la situazione: pieno di storie di coming out adolescenziali, di giovani e di qualche adulto, non ha mai mostrato grande interesse per l’età degli acciacchi. Del resto, sin dagli anni ’50 si sa che nelle sale mettono piede soprattutto i ragazzi, e perché dovrebbero andare a vedere gente che impiega due minuti ad attraversare un’inquadratura?
Da qualche anno però si assiste finalmente al ritorno di qualche volto rugoso in ruoli altri dal far parte dell’arredamento di fondo. Presumo sia perlopiù una questione di inflazione: ora che i gay sono ovunque, sembra esserci una carenza di soggetti originali, al punto da indurre a scongelare persino l’innominabile. In parte è però anche una questione generazionale: c’è ormai tutta una schiera di attori gay avanti con gli anni che, lungi dal sentire il bisogno di sposare donne in carriera, si prestano volentieri a ruoli che i vari Charles Laughton, John Gielgud o Alec Guinness dei tempi andati non erano certo inclini a prendere in considerazione.
Alla soglia dei sessant’anni Ian McKellen aveva per esempio interpretato, in Demoni e dei (1998), gli ultimi giorni di vita del quasi settantenne James Whale, il regista di Frankenstein (1931), quello con Boris Karloff sulle zeppe e con i bulloni piantati nel collo. Proprio McKellen, oggi che di anni ne ha 74, ha sfidato il tabù anche in televisione interpretando un mediocre attore che vive di ricordi e di illusioni, accudito dal compagno (Derek Jacobi, 75 anni portati splendidamente). Vicious (2013) è una sitcom geriatrica di commovente autoironia, rispetto alla professione del protagonista, al passato dei due interpreti (tra i quali c’era stato del tenero), al loro status di icone militanti, alla vecchiaia stessa e infine a un certo modo di essere omosessuali che non è più di moda. Vale a dire quello delle punzecchiature acide che sanno di stereotipo e hanno fatto storcere il naso a molta critica, miope di fronte alla leggerezza con cui abbiamo ben il diritto di giocare con noi stessi e la nostra storia. Tanto più se il contorno è ricco di tenerezze, che in televisione due anziani gay non avevano mai potuto mostrare.
È cosa ben diversa, dunque, dal vedere Elliott Gould, stessa classe anagrafica, dibattersi tra mossette d’altri tempi in Mulaney (2014). Il suo Oscar è un eccentrico newyorkese che pare essersi appena risvegliato da un letargo iniziato nella San Francisco degli anni ’70. A parte il fatto di essere un saggio vicino di casa che dispensa buon senso, nulla in lui induce all’entusiasmo. O diverte davvero. Consola solo il fatto che non è certo Oscar il punto più debole della sitcom, che ha registrato ascolti disastrosi.
Al contrario, lo zio Saul di Brothers & Sisters (2006-2011) ha saputo segnare una svolta nella televisione “seria”. Il suo interprete, Ron Rifkin, ha compiuto 70 anni tra una stagione e l’altra, portando Saul da un sofferto coming out alla non meno sofferta scoperta di essere sieropositivo. Il che non gli impedisce di rimettersi con una vecchia fiamma che nell’ultima puntata decide persino di sposare: si tratta nientemeno che di Richard Chamberlain, il sex symbol di Uccelli di rovo (1983), nel frattempo giunto a 76 anni d’età ed entrato nel guinness dei primati per uno dei coming out più tardivi mai registrati (a ridosso del quale, nel 2007, era stato subito promosso a far da nonno gay in una puntata di Desperate Housewives).
Di matrimoni tra anziani è arrivato intanto a parlare anche il cinema. Non lascia indifferenti vedere l’ottantenne Olympia Dukakis fare di tutto per mettere l’anello al dito alla quasi settantenne Brenda Fricker in Cloudburst (2011). Il film è in sostanza un road movie, il che suona un po’ come un paradosso, dato che l’archetipo del viaggio come scoperta e maturazione si applica per ovvie ragioni meglio alla gioventù che all’età dei bilanci. Se poi i racconti senili in genere trasudano filosofemi, qui abbiamo un’ottantenne che scoreggia a letto, guarda porno, ha il senso dell’umorismo di uno scaricatore di porto e si fa seria solo per professare la propria reverenza per k.d. lang. È anche questo un modo per dire qualcosa sulla vita e su ciò che le giovani generazioni sono già abituate a dare per scontato: alle due donne occorre uno sforzo per adeguarsi a un mondo in cui il riconoscimento dei legami tra persone dello stesso sesso non è più inammissibile.
La variante maschile è arrivata nelle sale da poco, con un John Lithgow alle soglie dei 70 e un Alfred Molina appena oltre i 60. I toni dell’amore (2014) è un film semplice: un pensionato e il suo compagno si sposano e, siccome il secondo viene licenziato in tronco dalla scuola cattolica dove lavora, devono dividersi nell’attesa di trovare un appartamento più economico. Non vi è nient’altro: il finale è facile e le storie collaterali sono prive di interesse; contano solo il sentimento che lega i due uomini, i loro sguardi innamorati, il continuo cercarsi, i gesti sincronizzati dalla lunga convivenza, le parole sussurrate con complicità.
Se una decina di anni di distanza tra i partner di questi due film quasi non si notano, problemi diversi pongono i 42 che separano Liberace, il pianista più kitsch e più velato della storia di Las Vegas, dal suo fidanzatino in Dietro i candelabri (2013). In realtà Matt Damon ha (visibilmente) il doppio degli anni del suo personaggio, ma è comunque un (bel) segno dei tempi mutati vederlo recitare con un sorprendente Michael Douglas (sempre promosso come tombeurs de femmes, al punto da farsi ricoverare per dipendenza dal sesso) in una di quelle parti che un tempo chiunque a Hollywood avrebbe evitato con orrore, nel timore di rovinarsi la carriera. Se poi il film è di una noia mortale è per il semplice fatto che tale era la vita privata di Liberace. Comunque secondo i biografi fu vero amore, eppure la diffidenza nei confronti della distanza d’età è dura a morire, tanto che verrebbe da chiedersi se in Beginners (2010) Ewan McGregor sia più colpito dall’apprendere che il padre (un Christopher Plummer di 81 anni) ha un tumore, che è gay o che ha una relazione con un ragazzo (il cui interprete ha 50 anni in meno di Plummer).
Sul potenziale trasgressivo della differenza di età ricama anche Bruce LaBruce in Gerontophilia (2014). Pur addomesticando il suo stile (che ha spesso sconfinato nel porno) per uscire dal circuito festivaliero, non ha rinunciato a dichiarare a parole la carica politica della vicenda, però contraddetta nella sostanza dal film stesso. La passione di un piacente ragazzo per un ottantaduenne non porta infatti a nessun dramma che ne testimoni il valore rivoluzionario. Ogni situazione problematica si risolve da sé. Persino quando il giovane “rapisce” l’amato nessuno li cerca; quando lo riporta morto nessuno fa domande. Come si può fare una rivoluzione in una società che non reagisce e non si scandalizza? Inoltre l’attenzione del film è tutta sul ragazzo e sul suo corpo, non su quello dell’anziano, nel qual fatto vedo ben poco di trasgressivo. Quando alla fine il giovane cammina sorridente, più che l’orgoglio di essere gerontofilo mi pare esibisca quello di essere riuscito a seppellire il presunto amore per l’ottantenne prima ancora del cadavere dell’uomo.
Sospetto comunque che il vero motivo del fallimento di Gerontophilia siano I Simpsons. Gli anziani gay saranno infatti anche sbarcati in forze solo di recente al cinema e in tv, ma sono pur sempre già vent’anni che Waylon Smithers cerca di sedurre l’ultracentenario Mr Burns. È dunque già materia per bambini?