L’icona pietosa, il freak da circo, l’incompreso. Bradley Cooper porta in scena Elephant Man (l’Uomo Elefante) – basato sulla storia vera di Joseph Marrick – con tutti suoi cocci, le microstorie e i sogni essenziali, che ne deformano piedi, mani e volto. Distorcendo il senso di bellezza e bruttezza, di accettabile e mostruoso, come si fa con un torto subìto.
Pride ha incontrato a New York l’attore tre volte nominato all’Oscar, e icona gay dai tempi del film Wet Hot American Summer, ora in aria di diventare una serie tv con Cooper di nuovo nel cast, in concomitanza dell’uscita di American Sniper e del debutto della pièce a Broadway. Al suo fianco, Patricia Clarkson (nel ruolo di Mrs Kendal) e Alessandro Nivola (il dottor Treves). Dopo il plauso di critica e pubblico ora le tre star sono in scena al Theatre Royal Haymarket a Londra fino all’8 agosto. “È una storia che mi ha sempre ispirato” ci dice l’attore. “Forse è la vera ragione per cui ho scelto questa professione, anche se tutto è partito dal film originale di David Lynch con Anthony Hopkins e John Hurt, che miscelava i testi The Elephant Man and Other Reminiscences e The Elephant Man: A Study in Human Dignity. L’ho visto da ragazzino, su un divano rosso nel soggiorno, avrò avuto 12 anni. Solo più tardi, a scuola, ho appreso che si trattava di un testo teatrale.
Dentro c’era tutto quello che cercavo al tempo: il confronto con la deformità, la volontà da parte dell’Uomo Elefante di capire l’amore, di accrescere la propria intelligenza. Il rispetto dei diritti di tutti! Proprio come fa il dottor Treves che prende in cura l’uomo e lo salva dal gorgo, dalla carnevalata, dalla kermesse circense. Poi l’incontro con l’attrice Mrs. Kendal e il senso di protezione che sboccia tra i tre personaggi”.
Nello spettacolo, a differenza del biopic del 1980, “la produzione di Bernard Pomerance e la regia di Scott Ellis non utilizza trucchi per deformare il volto dell’attore”, racconta Cooper. “Mi vedrete in scena senza addosso maschere di lattice o capelli finti. Il mio corpo si contorce senza effetti e make-up, perché riflette uno stato dell’animo quasi inaccessibile. Come riesco a farlo? Prendo un respiro profondo prima di entrare in scena e ricerco, insieme al pubblico, la compassione per questa creatura, che è più umana delle altre ma spaventa perché somiglia a un animale primordiale. In realtà è l’essere più civile di tutti”. Cooper, nominato da Voice for Equality “testimone ideale” per sensibilizzare gli americani su questioni come i matrimoni tra persone delle stesso sesso, ci spiega inoltre che la performance varia di spettacolo in spettacolo, di città in città: “Accolgo sul palco il piacere dell’improvvisazione. Anche quando so di dover dare il massimo o di dover dimostrare qualcosa a chi è più grande di me. Una sera mi hanno detto che in sala ci sarebbe stato Robert De Niro, un attore che con il corpo ha costruito la sua anima artistica. Allora mi sono sentito a metà tra l’essere presente e il non esserci. Tra il compiacere il pubblico e fare di testa mia. Una grande lezione: questa pièce mi sta insegnando a non tradire quello che sono, a lottare per restituire la verità, sempre. A credere in me stesso e rispettare chiunque, là fuori, sia trattato in maniera diversa, con meno tutele. A 40 anni, dopo uno degli ultimi ruoli che ho interpretato per Clint Eastwood (il cecchino Navy SEAL Chris Kyle, per cui ha messo su parecchi chili di muscoli, N.d.R.), posso permettermi di esplorare più lati umani possibili. Mi esercito ogni giorno con il mio coach – per American Sniper ho cercato di imitare l’accento del Texas a partire dal brano Feelin’ Good Again di Robert Earl Keen – e voglio portare la mia carriera d’attore a una nuova dimensione”.
Mentre pronuncia queste parole, le mani cercano i bottoncini della camicia, gli occhi si fanno piccoli poi enormi, spiritati. Il viso pare quello di un bambino a cui, talvolta, piace aggiungere dude in chiusura della frase. “Non so quanto della curiosità che ho come artista derivi dalla città da cui provengo, Philadelphia. So che sono cresciuto nei sobborghi di Rydal e che il cinema dall’altra parte della strada è stato un faro per me. Lo possiede ancora la mia famiglia, ho genitori di radice italiana e irlandese; mio padre era un broker di azioni per Merrill Lynch e mi ha mandato alla Germantown Academy, uno degli istituti migliori del posto. Resto legato ai Philadelphia Eagles e ho una passione per le motociclette, ne ho almeno cinque”.
Ad avvicinare oggi Cooper alla pièce di Elephant Man è soprattutto il dolore per la perdita del padre, morto di cancro nel 2011: “Mi ha dato una prospettiva forte sul mondo. Mi sono perso, poi sono tornato. È stato un balletto tra l’amore e la desolazione. Sono convinto che più il corpo si deteriori, più la nostra anima si espande e si rafforza. Quando avevo 20 anni vedevo ogni passaggio di vita come bello o brutto, bianco o nero, mai una via di mezzo. Comincio adesso a dare un senso alle imperfezioni”. E gli occhi formano uno spicchio di sole mentre il sorriso si nasconde appena dietro il pugno.