Quant’era bella (o brutta) l’Italia bigotta e sommamente ipocrita dell’epoca pre Stonewall, in cui tanti maschi “ci stavano” almeno fino al momento del matrimonio? Questa diatriba ha fatto storia, scavando in particolare un solco profondo tra molti di coloro che erano stati giovani a quel tempo e i gay scostumati che sono venuti dopo a sputtanare tutto, rivendicando per sé identità e dignità senza compromessi con la morale tradizionale. Simboli dello scontro generazionale furono l’estraneità rancorosa o perfino le invettive, a volte sorridenti a volte no, di personaggi famosi come Visconti, Pasolini, Arbasino o più di recente Zeffirelli nei confronti del movimento di liberazione gay, che da parte sua rispondeva per le rime. Due mondi apparentemente inconciliabili. Il primo imbevuto di romantiche quanto praticissime convinzioni relative alla spontaneità, naturalezza o signorilità di un’Italia arcaica in cui tutto poteva accadere a patto di non codificarlo; il secondo ansioso di verbalizzare e di utilizzare il sovversivo potere della corrispondenza tra le parole e i fatti per intaccare le gerarchie sociali e sessuali. Ora però che un altro po’di tempo è passato e che i giovani rivoluzionari di trenta o quarant’anni fa hanno a loro volta i capelli grigi, è arrivato il momento di guardare al passato con altri occhi, meno polemici e più affettuosi, nonché attenti alle sfumature che rendono ciascuno di noi un frammento di storia a suo modo speciale.
Nasce da questa esigenza Quando eravamo froci – Gli omosessuali nell’Italia di una volta, un libro di Andrea Pini appena pubblicato da il Saggiatore che ricostruisce le ormai mitiche atmosfere del periodo tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Settanta attraverso le testimonianze dirette di venti personaggi che hanno vissuto allora la propria giovinezza. Andrea Pini, già noto ai lettori Pride in quanto assiduo collaboratore della rivista (su cui sono apparse in forma ridotta alcune delle interviste contenute nel libro), è un esponente della generazione successiva, quella dei militanti gay che negli anni Settanta e Ottanta polemizzavano idealmente con i loro più velati “antenati” ma comprendevano l’importanza di elaborare una memoria collettiva, una storia comune finalmente ricomposta e consapevole del fatto che la costruzione di un presente e di un futuro più accettabili necessitano di una riflessione sul passato. Da qui prende le mosse questo testo polifonico, reso straordinariamente vivace dalla qualità dei racconti cui dà voce, che non rinuncia tuttavia a tracciare un quadro di riferimento storico generale in tre ampi capitoli introduttivi che sintetizzano lo status pubblico e privato dell’omosessualità in quegli anni senza mai scadere nella noia o nella seriosità accademica. Che la leggerezza, in senso buono, e l’ironia garbata siano un filo conduttore essenziale di questo volume di quasi quattrocento pagine lo si capisce del resto già leggendo la prefazione di Natalia Aspesi, grande firma del giornalismo italiano che sul filo di memorie personali assai simili per tono e contenuti a celebri monologhi di Franca Valeri ricorda come negli anni Cinquanta certi giovani “impeccabili, gentili ed eleganti, capaci di notare la luce di un filo di perle o un nuovo ardito paio di scarpe” passassero per i fidanzati ideali delle ragazze borghesi. Le mamme li adoravano non meno delle figlie, anche se poi “certe fidanzate si incupivano di quei baci rari e sfuggenti, e mai un corpo a corpo da cui difendersi”. All’epoca nelle famiglie non si parlava certo di omosessualità, “né veniva in mente”, prosegue Aspesi, “di porsi domande su certi simpatici scapoloni assolutamente perbene, spesso invitati a cena per far loro conoscere qualche ragazza molto matura e disperata, chissà mai ne nascesse qualcosa di buono. Ma loro avevano sempre da mostrare la foto ormai sdrucita di un’antica signorina, morta tanti anni prima, che era stata il loro grande insostituibile amore. Alla sua cara memoria si erano votati in solitudine, per lei avevano rinunciato a farsi una famiglia. Però si dedicavano a qualche giovane amico, come fosse un figlio, per aiutarlo negli studi e, se mai gli fosse venuto in mente il ghiribizzo di lavorare, in una professione”. E via di questo passo, un aneddoto dopo l’altro, fino a una dolceamara conclusione su quanto fossero sceme le fidanzate di allora e quanto invece diabolicamente furbi i loro gai cavalieri, che di nascosto ne facevano di tutti i colori come ben documentano le interviste raccolte da Pini.
Dopo questo divertente e struggente preambolo il libro entra nel vivo, spiegando come si viveva e si percepiva l’omosessualità in quegli anni. Partendo dal presupposto che la fine della seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo non portarono con sé un automatico miglioramento su questo tema. La repressione dei comportamenti ritenuti scandalosi continuò a farsi sentire duramente nei due decenni successivi, come dimostrano numerosi episodi giudiziari, dal primo processo a Pier Paolo Pasolini del 1949 allo scandalo dei balletti verdi dei primi anni Sessanta al caso Braibanti già in pieno ’68. Così come non scomparvero le draconiane misure di polizia contro i “diversi” scomodi (primi tra tutti i travestiti), mentre il dibattito pubblico usciva dal silenzio soprattutto per condannare e stigmatizzare le trasgressioni della norma. Accanto a tutto questo però c’era una vita multiforme e complessa che si prendeva comunque i propri spazi, com’era accaduto anche nelle epoche precedenti. Salvo eventi o personalità clamorose e in quanto tali relativamente isolate, l’Italia rimaneva un paradiso del “si fa ma non si dice”, con la complicità dell’ancora rigida separazione fra i sessi cui si aggiunse a un certo punto anche la chiusura dei bordelli sancita dalla legge Merlin (1958), che secondo le preoccupate denunce della stampa di destra consegnava la gioventù virile nelle mani degli invertiti.
Fosse o meno così, molti dei testimoni diretti intervistati da Pini concordano sul fatto che chi desiderasse avventure erotiche aveva solo l’imbarazzo della scelta. “I Cinquanta e anche i Sessanta erano anni straordinari”, dice ad esempio lo scrittore Giampiero Bona narrando delle proprie scorribande tra Torino, Venezia, Roma e La Spezia e aggiungendo che “oggi la società è diventata molto più medievale e puritana di una volta”. Si “combinava” un po’ ovunque. Nei pisciatoi (“I vespasiani, luoghi davvero molto divertenti”, ricorda Mario Nati), nei cinema, nei parchi, sulle rive dei fiumi non ancora irrimediabilmente inquinati dove i ragazzi andavano a fare il bagno nudi d’estate o nelle macchie di verde delle periferie non ancora cementificate. Come riferisce a proposito di Roma Riccardo Peloso, libraio giornalista, esperto d’arte nonché fondatore di uno dei primi locali gay della capitale, “si rimorchiava dappertutto. Ogni sera accadeva qualcosa. Oppure di giorno prendevi la circolare rossa, quella esterna, e se guardavi un ragazzo lui capiva al volo e se ci stava ti faceva un sorriso. Era il segnale e si scendeva alla prima fermata… Capirai, intorno erano tutte fratte e si faceva senza problemi. All’epoca di omicidi non ce n’erano, anche la violenza era minima, il massimo che ti poteva succedere, se andavi con un gruppo di ragazzi, era che ti portassero in un prato, facessero, e poi ti lasciassero lì in mutande…”.
I giochi di sguardi non avevano confini e per incontrare non bisognava naturalmente spingersi fino al capolinea dell’autobus e neppure appostarsi, come molti pure prediligevano, fuori dalle caserme per intercettare frotte di volenterosi militari in libera uscita. Ancora a Roma, che emerge dalle interviste come vera caput mundi del rimorchio facile, bastava stazionare ai piedi della scalinata di piazza di Spagna. Nella cui fontana la mitica Giò Stajano, primo frocio pubblico a tutti gli effetti del nostro paese in seguito diventata donna dopo un’operazione a Casablanca, rivendica di essersi bagnata fornendo così al Fellini della Dolce vita lo spunto per la celebre scena di Anita Ekberg nella fontana di Trevi. E se ancora non si era paghi degli incontri all’aria aperta o nei luoghi pubblici al chiuso, c’erano anche le feste private in casa di gente ricca e disponibile, che talvolta sconfinavano nell’orgia, o più castigati salotti intellettuali dove pure c’era l’opportunità di fare conoscenze memorabili. Tanta abbondanza di occasioni non era in ogni caso per tutti né dappertutto. Chi non era abbastanza libero da fregarsene dei diktat del perbenismo ufficiale soccombeva alla negazione di sé e doveva rassegnarsi a un’esistenza avara di soddisfazioni amorose, mentre chi aveva la sfortuna di non vivere in una grande città, come racconta lo scrittore Gilberto Severini della sua cattolicissima provincia marchigiana, sceglieva il più delle volte la via della sublimazione.
Astinenti a parte, un altro dato che in parecchi nostalgicamente sottolineano è il totale interclassismo delle frequentazioni frocesche, dove si mescolavano in una spensierata anarchia erotica nobili e borghesi, proletari e artisti, volti noti e personaggi anonimi. Il che non toglie che qualche regola di mercato ci fosse eccome. La differenza principale, rispetto a oggi, è che la maggioranza dei giovani che si concedevano non erano marchette professioniste e che siccome erano poveri non risultavano particolarmente esosi nella percezione di chi apparteneva alle classi più abbienti.
Ma quella della mancia o del regalino non era poi la sola regola da osservare nel sesso protogay. Fin dalle prime esperienze adolescenziali il concetto base era che si poteva fare di tutto, ma poi in linea generale non se ne parlava. “Si faceva come fosse lavarsi le mani e poi basta”, racconta Gianni Zago, mentre Giampiero Bona afferma che “non c’era bisogno di parlarne perché non era considerato un problema”. Così, nella memoria degli intervistati, affiora spesso l’opinione che questo fosse un modo più naturale e spontaneo di vivere la sessualità, senza riconoscere che fosse al tempo stesso un modo di dissociarla e rimuoverla dal proprio sé presentabile. “Per certi versi”, dichiara Mario Sigfrido Metalli, si stava meglio prima, c’era molta più ingenuità, molta più purezza”. Poi, quando è arrivata la liberalizzazione sessuale, niente più spontaneità…”, come precisa Aldo Sebastiani, detto “la chierichetta”per via della sua dimestichezza con l’ambiente ecclesiastico. O come osserva ancora Riccardo Peloso: “Sono contento di tutti i cambiamenti nel mondo gay, ma non mi ci ritrovo… La maggiore libertà gay ha creato una trincea di libertà limitata, codificata. La coscienza dell’omosessualità, oggi, ci ha isolati dagli etero, che non vogliono specchiarsi. Ha creato distanza e violenza, ecco perché ci sono tutti questi omicidi che prima non c’erano. In quegli anni quasi tutti preferivano tenere nascosta l’omosessualità e praticarla, ora non possono più”.
Arricchiscono il volume due inserti fotografici con immagini d’epoca, alcune delle quali riprodotte in queste pagine, che in gran parte provengono dall’archivio di Giovambattista Brambilla, altro storico collaboratore di Pride. Invece, un limite del lavoro di Pini è forse che quasi tutti gli intervistati sono personaggi fuori dal comune: intellettuali, artisti o comunque persone più istruite e consapevoli della media. Ma è anche la qualità che più affascina, descrivendo una galleria di personaggi che al di là di una relativa omogeneità socio-culturale sono poi diversissimi per personalità, inclinazioni e punti di vista. I maschi virili, come Josip Dujella e Mario Chinazzo, e gli artisti del travestimento come Dominot e Vinicio Diamanti. Linguacce acute e irriverenti come Paolo Poli e anime austere e pensose come Elio Pecora, Aldo Braibanti e Gilberto Severini. Tutti testimoni di un mondo ormai sparito che, malgrado i suoi innegabili difetti, sono in grado di evocare con una forza che ci fa comunque rimpiangere qualcosa.